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AI e traduzione: minaccia o opportunità?

di Francesca Ciucci Giuliani, allieva del master “Il lavoro editoriale” 2025

Dal latino traducĕre, trasportare, portare al di là. Tradurre qualcosa significa osservarlo, comprenderlo e trasformarlo,  per renderlo accessibile a qualcun altro. Questa trasformazione e questo lavoro sul materiale originario cercano di preservarne la natura – sostanza e forma – pur cambiandone le vesti, cioè la lingua. Da tempo si usano programmi digitali a supporto dell’attività di traduzione, e questo è un valido metodo per accorciare i tempi di lavoro per il traduttore e fornirgli strumenti aggiuntivi. Questo è però momento di transizione, in cui l’esperienza umana deve convivere con esperimenti di utilizzo dell’intelligenza artificiale non solo come supporto ma come alternativa.

Ad esempio, nel novembre del 2024 l’editore olandese Veen Bosch & Keuning ha dichiarato che sarebbe ricorso all’intelligenza artificiale per tradurre alcuni romanzi – con il consenso degli autori, naturalmente – dall’olandese all’inglese. Si trattava di titoli di narrativa commerciale, e l’esperimento prevedeva comunque una seconda fase di controllo e revisione da parte di traduttrici e traduttori. L’iniziativa ha scatenato, com’era prevedibile, scetticismo e dissenso, ma anche una certa curiosità. Che l’intelligenza artificiale sia ormai uno strumento largamente utilizzato e che non sia possibile – e forse nemmeno utile – fingere che non esista e ignorarne le potenzialità, è ormai un dato di fatto. Si può discutere però degli ambiti e della misura del suo utilizzo.

Il problema posto da alcuni importanti traduttori rispetto a questa notizia, e il dilemma che si pone in generale, è sia morale che di resa. Innanzitutto, affidare le traduzioni all’IA toglie lavoro ai traduttori, salvo poi dover comunque contare su di loro per la revisione che, spesso, in casi di traduzione corretta dal punto di vista lessicale ma inadatte per quanto riguarda il registro e le sfumature linguistiche, può comportare una riscrittura quasi completa. La resa è infatti un’altra preoccupazione espressa da alcuni traduttori: come si sa, non si traduce parola per parola e – soprattutto – la traduzione non riguarda solo le parole. Se «tradurre è dire quasi la stessa cosa», come sosteneva Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione (Bompiani, 2003), un traduttore sa che dovrà fare delle rinunce per ottenere il miglior risultato possibile. Ogni testo, specialmente quelli letterari, ha riferimenti ed elementi culturo-specifici che sono difficili da rendere con naturalezza in una traduzione, e che costringono chi traduce e fare delle scelte. Tali scelte possono essere fatte in modo consapevole – seppur eventualmente sbagliato o imperfetto – soltanto da un’intelligenza umana.

Ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la criticità emerge anche con testi che non abbiano un altissimo valore letterario: pensare che tradurre un romanzo commerciale non richieda intelligenza e sensibilità fa parte di un atteggiamento di snobismo che è giudicante nei confronti di un’importante fetta della produzione editoriale e di chi la legge, atteggiamento che si rivela alla fine dei conti controproducente per l’editoria stessa.

Infine, anche nelle traduzioni tecniche e di linguaggio specialistico, l’IA può rivelarsi insufficiente. I sistemi di intelligenza artificiale, infatti, traducono raccogliendo una grandissima quantità di informazioni, nutrendosi dell’utilizzo che gli esseri umani fanno di determinate parole e proponendo poi come traduzione i risultati che hanno maggiore occorrenza. Questo, ovviamente, dà molto spesso risultati attendibili, ma non sempre la parola o il risultato più comune o più utilizzato sono quelli corretti in quel determinato contesto. Ricordo che una traduttrice di testi tecnici mi raccontò una volta di aver revisionato un manuale riguardante dei trattori, che era stato precedentemente tradotto con l’IA. L’algoritmo aveva tradotto la parola spring come primavera. Ed effettivamente può sembrare corretto. Spring significa primavera. È l’utilizzo probabilmente più comune e sicuramente il più conosciuto in italiano. Ma, trattandosi di trattori, la traduzione giusta in quel caso era molla. E una traduttrice o un traduttore l’avrebbero capito senza alcuna difficoltà. In ogni tipo di testo, il contesto delle parole è importante tanto quanto le parole stesse e non può essere trascurato. È una questione di aderenza, cioè il tentativo di restare più fedeli possibile al testo fonte: «cercare di aderire il più possibile non solo a cosa hanno scritto ma anche a come lo hanno scritto» come dice Franca Cavagnoli ne La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre (Feltrinelli; 2012).

Quello di Veen Bosch & Keuning è il caso più eclatante, ma l’utilizzo – dichiarato o meno – dell’IA per la traduzione non è probabilmente così raro. Ad esempio, pur non trattandosi di una casa editrice tradizionale, il servizio di autopubblicazione di Amazon, Kindle Direct Publishing, consente nelle sue linee guida agli autori di pubblicare anche traduzioni che siano state realizzate dall’intelligenza artificiale o col suo ausilio, purché lo si dichiari.

Allo stesso tempo, dall’altra parte dello spettro, alcuni grandi editori, oltre che associazioni di traduttori e interpreti, si sono pronunciati esplicitamente contro l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per le traduzioni editoriali: Bloomsbury Publishing ha dichiarato di disapprovarne l’utilizzo perché non garantisce una qualità sufficiente, mentre la Penguin Random House ha aggiunto una clausola nel copyright delle sue pubblicazioni che non permette l’utilizzo dei testi delle opere per addestrare i sistemi di intelligenza artificiale.

Veen Bosch & Keuning non ha ancora rilasciato dati né raccontato come stia andando l’iniziativa e sarebbe interessante sapere se e come la casa editrice ha intenzione di misurare e monitorare il successo di questo esperimento. Tentativi come questo possono aiutarci, sempre ascoltando le voci dei traduttori, a capire come muoverci da qui in avanti. Ma dovremmo ricordarci sempre che lo scopo è quello di trasformare il testo, lasciandolo sé stesso e che, forse, per quest’operazione, abbiamo ancora bisogno di una sensibilità tutta umana.

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