Intervista a cura di Nicoletta de Rose e Dea Merlini.
Nel suo romanzo tratta un tema, quello della malattia mentale, che è ancora tabù nella nostra società e che genera spesso una volontà di distacco e allontanamento. Lei, invece, sembra chiedere ai suoi lettori di farsi coinvolgere emotivamente dai suoi personaggi. La letteratura, secondo lei, può rappresentare un mezzo valido per creare empatia?
Assolutamente sì, e nel mio caso la letteratura è stata uno strumento di mediazione con chi si approcciava alla mia storia e tentava in qualche modo di “patologizzare” qualsiasi mia attività, sguardo, gesto. La scrittura è stata quel contrappeso, quell’elemento che mi ha permesso di dire a me stesso in primis che non tutto era malattia. Un uomo interrogativo, che si interroga sui propri limiti, su sé stesso e sul mondo non è, di per sé, un uomo malato. È un uomo vivo, e la letteratura, in fondo, ha sempre svolto proprio questo ruolo, no? Quello di fornire elementi sulla nostra natura, quindi è per me lo strumento migliore per raccontarci. Questo romanzo, in qualche maniera, esiste proprio per testimoniare un percorso che, sì, ha visto momenti di sprofondamento, di nevrotizzazione, ma ha visto anche momenti in cui quella domanda, quell’imperativo, viveva in piena sintonia e con legittimazione, perché in fondo il grande rischio della nostra epoca – lo dico ogni volta che incontro qualcuno in questi incontri digitali che ci stanno salvando in questo periodo – è che ci sia un po’ di confusione rispetto alla natura dell’uomo.
Il suo libro ci sembra istituire un rapporto tra salvezza e bellezza, che paiono dapprima negate in un luogo come l’ospedale psichiatrico, ma che proprio lì si riscoprono forti e fondamentali, anche mediate dalla poesia. Può parlarci un po’ di questo rapporto?
Questa domanda investe in maniera frontale quella che è la mia poetica, quindi il mio sguardo sul mondo, quello che poi entra nel tessuto della scrittura. Io credo che la grande sfida sia quella, appunto, di rintracciare bellezza laddove apparentemente non esiste. Prima parlavamo di questa epoca che in qualche maniera ha dimenticato alcuni elementi cardinali della nostra natura. Allo stesso modo viviamo in un’epoca “estetizzata”, in cui abbiamo della bellezza una declinazione molto superficiale, nel vero senso del termine. La sfida dell’umano, invece, è rintracciare la bellezza dove apparentemente non esiste, quindi infrangere questo diaframma che spesso è d’orrore puro, e in quest’esperienza che racconto nel romanzo – questa settimana di TSO – in fondo la parabola di questo ragazzo è esattamente quella di un giovane uomo che, messo alle strette dalla realtà, di fronte a un’imposizione, a un obbligo, di fronte a una privazione della propria libertà, riesce, attraverso queste privazioni, a fissare l’altro, a fissare lo spavento, l’orrore dell’altro – perché inizialmente lui ha terrore dei suoi compagni di stanza, anche per la propria incolumità. In realtà, poi, quello che vede guardando “oltre” è una bellezza straordinaria: la bellezza dell’accoglienza, che è la bellezza di un riconoscimento reciproco rispetto alla propria natura profonda. In fondo questo ragazzo scopre la bellezza del dialogo che parte dalla propria natura e non da un tradimento della propria natura. Questo, dal mio punto di vista è il tema profondo del libro. Esiste un altro che ci accoglie per quello che siamo veramente. E questa per me è la forma suprema di bellezza.
In questa storia viene evidenziato come essere prigionieri di sé stessi sia una delle peggiori forme di privazione della libertà. A questa prigionia, nel romanzo verrà incontro un’inaspettata fratellanza fra i personaggi che, a partire da iniziali reticenze fatte di sospetto e paura, sperimentano attraverso di essa una forma di liberazione dai loro demoni. In che modo le relazioni sono in grado di aprire il protagonista a un percorso di crescita?
La domanda mette assieme due elementi secondo me fondamentali, che a un primo sguardo sembrano creare un ossimoro; ma l’essere umano vive di ossimori, la poesia soprattutto – lo diceva Pasolini – nasce dagli ossimori della nostra esistenza. E questi due elementi a contrasto sono da una parte la negazione della libertà, la negazione del proprio spazio vitale, la negazione della propria scelta, dall’altra una possibilità che nasce da questa privazione. E qual è questa possibilità? Fare di quella privazione un elemento di scommessa, un elemento di ricerca nuova, un elemento di slancio. E in fondo lo stiamo vivendo da due mesi tutti quanti: quest’elemento di chiusura rispetto alla nostra libertà, alla nostra scelta, può diventare sostanzialmente un’occasione per affrontare di più e meglio noi stessi, tante cose lasciate in sospeso, oppure può diventare semplicemente un tentativo di fuga ancora più profondo. E il protagonista del libro non sceglie, ma gli viene offerta dagli altri questa meravigliosa possibilità dell’accoglienza. Lui probabilmente non riuscirebbe, non sarebbe mai riuscito a trovare quella possibilità. È la disponibilità degli altri, dei suoi compagni di viaggio che all’inizio lo terrorizzano, sono loro a dirgli che, malgrado tutto, lì dentro può esistere una grande possibilità d’affratellamento. Nel romanzo io racconto un libro che è stato fondamentale per la mia vita, non solo per la mia educazione letteraria, ovvero Se questo è un uomo, di Primo Levi, e ci sono delle analogie tra i grandi accadimenti terribili che riguardano l’umanità. Primo Levi racconta, secondo me, l’evento in assoluto più tragico della storia dell’epoca moderna: lo sterminio. Ma anche se pensiamo alla letteratura che nasce dalle grandi guerre – soprattutto mi viene in mente la prima guerra mondiale, una guerra di poeti, i war poets – ogni Stato, ogni nazione, mandò i suoi giovani migliori, tra cui poeti e artisti, e l’uomo quando viene messo alle strette, quando vive in una sorta di negazione terribile, trova degli elementi di pulizia rispetto a quello che vale veramente. Ovviamente, nessuno sta alleggerendo il peso dell’esperienza. È come se l’esperienza del limite – e questi luoghi sono esperienza del limite – riuscissero, appunto, a depurare lo sguardo rispetto al gesto letterario, ma anche rispetto a quella che è la natura umana. E questa, nel mio piccolissimo, è stata anche l’occasione del TSO che ho vissuto a vent’anni.
Nel suo romanzo sentiamo la “penna del poeta” nello stile incisivo, epigrammatico, capace di creare in poche parole immagini fortemente evocative. In che modo dialogano fra loro poesia e narrativa all’interno del romanzo?
Parto dal fatto che, nascendo poeta, il grande tentativo, la grande scommessa è stata quella di approdare a una forma diversa, non scadendo nel poetico – che è un rischio grandissimo che corrono i poeti che approcciano altre scritture – però mantenendo quei momenti di lirismo, cioè quei momenti che, in fondo, si dice soltanto la poesia sappia raccontare. Mi viene in mente che soltanto la poesia sa raccontare la guerra, quindi è una lingua di elezione rispetto a certi luoghi del nostro vivere. La scommessa è stata mantenere viva la poesia all’interno di un tessuto ovviamente diverso, di un’architettura diversa. Se voi ci fate caso nel libro esistono due andamenti, due dettati completamente diversi: ce n’è uno che rimanda più a una forma narrativa pura, io lo chiamo il “muro di parole”, quindi quell’elemento, quella scrittura che riempie la pagina, però poi nei momenti di rottura, di fuga, in cui la narrazione non è più orizzontale ma diventa verticale, cioè entra dentro al fatto e quindi scava all’interno delle psicologie dei personaggi e dei fatti che si raccontano, ecco lì il bianco (cioè questo elemento per me fondamentale, l’elemento bianco della pagina). Per me è qualcosa che ha a che fare con la luce e il silenzio, che rende la parola più plastica, la tiene sospesa. Quando la narrazione punta più allo scavo, ecco lì che il bianco fa capolino e torno a una versificazione, quindi anche da un punto di vista formale riprendo un po’ l’andamento del poeta. La scommessa, appunto, è far convivere queste due anime, ma secondo me – e poi andiamo oltre, ma ci sarebbe da fare una bellissima chiacchierata, e magari ci sarà occasione quando torneremo a poter incontrarci – la sfida tra l’elemento lirico della poesia e l’elemento più piano della prosa è una sfida che ha da sempre affascinato tantissimi autori. Io adoro Attilio Bertolucci, che penso sia il caso forse più eclatante del nostro Novecento; riprendo le sue parole, lui diceva: «prosa e poesia son come due amanti che si lavano la schiena». Quando si riesce a farli convivere, permettono d’affrontare un determinato percorso con una grande ricchezza di strumenti
Nel suo romanzo le figure del padre e della madre di Daniele non appaiono spesso fisicamente, ma le loro presenze si avvertono in tutto l’intreccio. Così come si percepiscono e vedono le presenze dei genitori degli altri personaggi. Ci può dire qualcosa di più sulla sua prospettiva riguardo alla paternità e alla maternità all’interno del libro?
Questo è un altro tema che, un po’ come per la domanda su bellezza e salvezza, investe direttamente lo sguardo che sta prima della scrittura, e quindi l’elemento fondante, che è l’elemento della poetica da cui poi nasce il gesto, quindi c’è una visione a monte. Per me l’elemento della genitorialità, della generazione, è un elemento molto importante. Secondo me ognuno di noi è una somma assolutamente unica, fatta di addendi diversi: noi siamo generati, siamo generati da genitori, siamo generati da un ambiente, un habitat umano, culturale, sociale, e quindi una parte fondamentale di questi addendi proviene dai nostri luoghi. Però, a questi addendi, va aggiunta una parte, la nostra parte, il nostro mondo interiore, i nostri talenti. È l’unione di questi elementi che poi fornisce la cifra finale. Per me in questa cifra finale, meravigliosa, che siamo noi, ognuno di noi, l’elemento della generazione è fondamentale, perché, ad esempio – torno al romanzo – dentro quella stanza d’ospedale ognuno, nel bene e nel male, sconta la propria origine. Il tema del duello con la propria origine secondo me è un tema straordinario. Volponi ha scritto un bellissimo libro sul viaggio verso la città, in cui c’è la storia di questo ragazzo, ambientata negli anni Cinquanta, che fugge da Urbino, in cerca di non si sa che cosa. Quando tornerà nella sua città natale capirà che ta scappando da sé stesso, dai suoi genitori. Affrontare la nostra origine è un passo essenziale per la nostra sopravvivenza.Nel mio romanzo, però, esistono persone che sono salvate dalla propria origine e altre che sono maledette dalla propria origine. A me viene in mente il protagonista, Daniele, che ha in questa figura assente, evocata solo attraverso chiamate telefoniche, un approdo. Poi mi viene in mente Gianluca, che invece sta sul fronte opposto. È un uomo che sconta la malattia mentale, ma sconta anche una madre per cui tutto della sua vita è malattia mentale, anche l’omosessualità, anche il fatto di poter avere al fianco un uomo che riesca a volergli bene. E lui lo dice drammaticamente: per lei tutto è malattia. Ma pensiamo pure a Giorgio. Giorgio è il ragazzone di trent’anni che incarna in maniera assolutamente perfetta quello che è l’incubo di tutti i bambini di tutte le epoche: l’abbandono della figura materna. Io penso che tutti i bambini abbiano vissuto di fronte alla madre questo terrore, il terrore della scomparsa, e lui è chiamato dal destino a vivere quello che per noi altri era appunto un incubo, qualcosa di – per fortuna– non realizzato. E anche lui sconta all’infinito questa figura. Questo per dire che, in una chiave o nell’altra, in tutte le chiavi possibili rispetto ai percorsi umani, la nostra origine è un elemento comunque che sta nel mio sguardo, e, rispetto a questi romanzi biografici, a questo percorso che sto scrivendo, nel mio caso la mia origine è stata un meraviglioso approdo.
Ha citato Primo Levi come uno dei suoi scrittori totem. Nelle sue risposte ha fatto intendere che questa tendenza a etichettare come patologie alcuni comportamenti umani sia negativa in quanto quei comportamenti sono, in effetti, rappresentativi dell’essere «uomo vivo». Queste due parole rimandano al titolo di un libro di G. K. Chesterton; quando poi ha parlato di come si possa riscoprire la bellezza anche nella privazione della propria libertà e nei momenti più bui mi ha fatto venire in mente Flannery O’ Connor, per esempio. Mi chiedevo se, oltre a Primo Levi, si fosse ispirato anche ad altri autori.
Guarda io te ne aggiungo uno, rispetto ai meravigliosi autori che hai citato, poi Flannery O’ Connor è veramente un’autrice che io adoro, morta veramente troppo presto. A me viene in mente Emily Dickinson, un’altra che fa della privazione, di questa gabbia, un elemento esplosivo di creatività. Automaticamente mi viene in mente anche Dante che costruisce trentatré canti, tutti in terzine di endecasillabi, più gabbia di quella! Io quando penso alla Divina Commedia penso all’elemento quasi di claustrofobia, perché ABABCB, eppure lì dentro c’è l’universo. Dico però un autore che per me è cardinale tanto quanto questi che hai citato, e lo nomino perché è una figura che mi viene regalata da uno dei pazienti della stanza che prende vita nel romanzo: Mario. Cito Giorgio Caproni, perché, ecco, tornando alla visione che sta a monte, che precede la scrittura, la poetica di Caproni è straordinariamente affine al mio modo di vivere. Ma se tu prendi tutti i libri di Caproni, fa un percorso per certi aspetti violento, anche in termini molto formali, perché da questi canti meravigliosi a tutto ciò che fa parte del suo orizzonte umano, con questa lingua meravigliosa, con le rime semplici, poi lentamente mette sempre a fuoco la parte mancante di quello che sente esistere. E questo è un tema straordinario. Ma io perché dico che oggi rischiamo di confondere, di equivocare quello che sta nella nostra natura? Perché se uno prendesse da un punto di vista clinico, scientifico Il franco cacciatore o Res amissa di Caproni direbbe che è il diario di un uomo depresso. Però, allora, se si utilizza questo metro rispetto a tutta la letteratura che amo io, tutta quella che hai citato tu, te ne potrei dire tanti… Sono tutti depressi. Questo rimanda, secondo me, a un tema fondamentale in questi anni, giacché in fondo il mio passaggio da poesia a prosa nasce da questa sensazione terribile che vivo. La letteratura, come la filosofia, tutte quelle lingue che appartengono all’umano e che descrivevano in qualche modo la nostra natura e i suoi limiti, che con grande libertà affrescavano il nostro essere, non se la passano oggi proprio tanto bene, perché io rabbrividisco quando sento che la letteratura è semplicemente vissuta come forma di intrattenimento. Per me è stato altro. Per me la letteratura non è stata una forma di intrattenimento. Mai. Detto questo, queste lingue non vivono un momento di grande vitalità. Ma erano queste lingue, assieme alla scienza, assieme alla religione, era questa pluralità meravigliosa di lingue a determinare l’essere umano. Io sono un convinto progressista, perché, diciamo così, vengo da una famiglia di lavoratori, due secoli fa io sarei stato probabilmente rinchiuso in un manicomio, magari non avrei avuto neanche accesso all’alfabetizzazione, quindi nessuno più di me ama il progresso, ma quelle lingue erano e dovrebbero ancora essere fondamentali perché, assieme alla scienza, assieme alla medicina, costituivano quel bacino di discipline che ci raccontava. Non è tutta malattia, c’è anche la malattia, ci mancherebbe. Pensiamo a tutta la meravigliosa genia di autori, poeti, letterati, artisti, che hanno vissuto questa ambivalenza. Dino Campana è forse quello che io preferisco su tutti. Parlo sempre per me: il Novecento italiano è stato un secolo inimitabile. Ne potrei citare un altro di autore, che per me è altrettanto grande: Clemente Rebora, uno a cui fu diagnosticata la “mania dell’eterno”, proprio perché Rebora è uno che scontava esattamente questo contrasto. Ma ce ne sono diversi. E ripeto, nessuno nega la malattia, sarebbe semplicemente idiota, ma non facciamo di tutta la nostra vitalità un elemento da purgare.
Anche perché senza domande non ci sarebbe arte.
Esatto, altrimenti faremmo tutti dei bellissimi format tutti uguali. Io adoro una serie – non amo molto la serialità ma una la adoro – che è Black Mirror, una serie distopica in cui si racconta un futuro che noi, in alcuni episodi, abbiamo in un certo senso sorpassato. L’essere umano è fatto per interrogarsi. Un ragazzo di vent’anni, che è lanciato nel percorso, nella gerarchia, nei grandi obiettivi del mondo, ha anche il diritto, ogni tanto, di dire: “Scusate, io mi fermo, perché voglio sapere un po’ meglio, voglio provare a sapere un po’ meglio chi sono”.