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Intervista a Cristina Marconi, candidata al Premio Strega 2019

Sofia Brovadan e Chiara Calselli, allieve dell’undicesima edizione del master «Il lavoro editoriale», hanno intervistato Cristina Marconi, candidata al Premio Strega 2019 con il libro Città irreale (Ponte alle Grazie). Cristina Marconi è stata ospite della Scuola del libro, insieme agli altri 11 candidati, in occasione della serata Effetto Strega, che si è svolta l’11 giugno 2019 presso WE GIL. 

Cristina, da diversi anni scrivi di politica britannica e cultura per testate come Il Foglio e Il MessaggeroCittà irreale è il tuo primo romanzo. La tua formazione giornalistica si è rivelata di ostacolo alla scrittura narrativa oppure ha rappresentato un valore aggiunto e un punto di partenza?

 Il giornalismo al suo meglio è la ricerca della verità e di una versione obiettiva degli eventi. Solo che nel caso di Città irreale io volevo rendere anche uno degli elementi più importanti e meno raccontati dell’emigrazione italiana contemporanea, ossia quel movente inconscio che ti fa lasciare una casa molto sicura e molto accogliente per andare in una grande metropoli senza madri, quella Londra (ma potrebbe essere Berlino, o Parigi, o Bruxelles) che ho sempre visto come una grande pagina bianca collettiva. Per questo ho dovuto adattare la mia scrittura, renderla ellittica, rinunciare a spiegare tutto come si fa nel giornalismo per dare al lettore la libertà di muoversi tra le mie storie. Alina, con il suo racconto in prima persona, è una fonte altamente inattendibile, di quelle che da giornalista guarderei con enorme sospetto, ed è proprio per questo che c’è da fidarsi di lei in un romanzo: non si è messa in posa per raccontarci la sua storia, non sta cercando di renderla degna di un reportage, e quindi è confusa e sincera. 

L’impressione che ci dà Alina, la protagonista del romanzo, è quella di essere affascinata dagli inglesi più per una sua anglofilia che per una reale affinità; infatti sembra riuscire a stringere delle amicizie reali solo con altri italiani, che tendono a raggrupparsi nella città senza mescolarsi con gli abitanti autoctoni. Credi che questo dimostri in qualche modo il fallimento dell’ideale europeista con cui la generazione di Alina è cresciuta?

Alina si innamora di Iain, che ha la mamma scozzese e il padre inglese, e non resta con lui solo perché significherebbe fermarsi, interrompere l’avventura, definirsi. E come sappiamo Alina ha orrore delle definizioni, è scappata apposta da Roma. E quindi si rituffa nel mondo rassicurante degli italiani, dove può essere fantasma tra i fantasmi in attesa di capire cosa vuole fare. Quando lo capisce, torna finalmente in grado di affrontare la persona che ama, la società che l’ha accolta e che ha reso il suo arrivo a Londra così diverso da quello dei suoi amici italiani. La libera circolazione è uno dei pilastri dell’Unione europea ed è il presupposto che rende possibile la storia di Alina, ma anche la principale causa della Brexit. Io non penso che l’ideale europeista abbia molto a che fare con Città irreale, anche perché Londra è sempre stata poco europea, anche quando era il magnete delle ambizioni dei giovani di tutto il continente. Alina ha anche pochi ideali, a differenza di Vicky: per me c’è dell’opportunismo nella sua scelta molto pre-politica di andare in un posto in cui sta meglio senza cercare di fare nulla per migliorare la società da cui viene. 

Secondo la psicologia sociale, una delle forme fondamentali di conoscenza della propria identità è la libertà. La libertà di agire senza i condizionamenti dovuti ad abitudini o a stereotipi culturali, legami affettivi, schemi sociali che inevitabilmente fanno parte del proprio contesto di provenienza. E attraverso l’osservazione dei propri comportamenti in un nuovo ambiente, l’individuo scopre chi è. Secondo te, quanto è vero questo per Alina? La fuga dall’Italia è un’esperienza essenziale per la crescita della protagonista, oppure sarebbe potuta giungere similmente a una maturazione personale restando qui? 

Assolutamente, ed è proprio sullo sfondo di un eccesso di libertà che ho voluto che si costruisse l’identità della mia protagonista. È una storia che riguarda molte persone, forse un’intera generazione, e che avrà conseguenze interessanti sulla società italiana, a condizione che qualcuno poi torni effettivamente in Italia. Certo che l’emancipazione può avvenire ovunque, ma quando c’è un fenomeno di massa di questo tipo secondo me vuol dire che queste abitudini, legami, schemi sociali sono forse un po’ troppo forti e le persone pensano che per superarli occorra andare davvero molto lontano. Questo vale sia da un punto di vista psicologico, magari rispetto alla famiglia, sia nella sfera professionale.

La generazione di Alina, che poi è un po’ anche la mia, ha iniziato da poco ad avere ruoli di potere a un’età nella quale i giovani inglesi fanno tantissime cose. Ci pensavo guardando quel piccolo capolavoro che è Fleabag in questi giorni: Phoebe Waller-Bridge l’ha scritto a trent’anni, è fresco e innovativo ma almeno ai miei occhi la trama, e soprattutto il rapporto tra le sorelle, era pieno di Jane Austen, di Ragione e sentimento, con i vicari belli e tutti questi scapoli da sposare in giro per le case di campagna. Il Regno Unito ogni volta che trova una giovane stella da celebrare gongola felice, sa che senza questi enfants prodige la tradizione non sopravviverebbe mai, c’è sempre una certa continuità con il passato nella dialettica tra sovversione e tradizione. In Italia spesso le energie si sprecano senza pensarci due volte, in modo sprezzante, sia soffocandole al servizio della conservazione, sia soffocandole e basta. Forse tutto questo con il tempo cambierà, ma il mezzo milione di italiani che vive nel Regno Unito tende a pensarla così. 

Spesso un romanzo è frutto di un processo di scambio e di compenetrazione che condiziona in modo consistente la conformazione iniziale di un’idea. In che modo hai lavorato sul romanzo con il tuo editor?

Ho avuto la fortuna di lavorare con il bravissimo Vincenzo Ostuni. All’inizio vivevo nell’incubo di scoprire quante ParoleOrrende (la serie che Ostuni ha inaugurato anni fa sui social, ndr) avrebbe trovato in Città irreale. E invece è andato tutto molto bene, mi ha guidata senza inibirmi attraverso un testo al quale tenevo e tengo da matti e abbiamo lavorato con la pazienza di due tagliatori di diamanti per dare alla bozza iniziale la forma migliore. Io vivo a Londra, ci siamo visti un paio di volte e abbiamo fatto tutto il resto nel corso di incontri-fiume su Skype. È stato molto, molto divertente. 

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