Intervista a cura di Ettore Bellavia, Benedetta Palmieri e Giulia Valori, allievi della dodicesima edizione del master «Il lavoro editoriale»
La figura di Tilio, apprendista anziano, potrebbe sembrare paradossale se interpretata attraverso i sistemi di riferimento contemporanei per cui il vecchio è figura statica, socialmente inutile e prossima alla morte. Lei compie invece una scelta ardita di risemantizzazione del suo ruolo. Come si concilia l’immagine della vecchiaia con quella di una continua possibilità di apprendimento?
Partiamo da quest’ultimo aspetto: cosa dobbiamo fare se non apprendere? Lo abbiamo imparato anche in questo periodo: chi ha la mia età, chi ha l’età di Tilio è dovuto ricorrere alle videochiamate, anche se non le aveva mai sperimentate prima. È stato inevitabile per esigenze lavorative, ma anche per poter mantenere un contatto con famigliari e amici. Viviamo in quello che chiamano antropocene, l’era in cui l’umanità, arrogatasi il diritto di possesso della terra, ha la facoltà di distruggerla, ma soprattutto il dovere di salvarla. La potenza tecnologica a cui l’uomo è arrivato ha determinato un’accelerazione continua verso nuove dimensioni della conoscenza necessaria per essere nel mondo. Tilio stesso è lì, connesso alla rete, pronto ad accertarsi che tutto quello a cui pensa abbia un riscontro nella realtà. In questa sfera di comunicazione globale e istantanea certe volte perdiamo i contorni sensibili del reale. Per capire dove siamo abbiamo bisogno di una certificazione e molte volte, paradossalmente, ricorriamo alla rete per assicurarcene. Ormai non è più l’essere umano che abbiamo accanto a darci la conferma della nostra esistenza. Rinunciamo alla modalità più diretta di conoscenza dell’altro e di noi stessi perché vivendo immersi in un sistema di comunicazione generalizzata siamo portati a creare degli standard, delle percezioni funzionali a un tipo d’immagini generate dalla società. In questa idea del mondo-consumo ovviamente l’anziano è una categoria che deve essere medicalizzata, ospedalizzata, tenuta buona per i nipoti, deve assumere il ruolo di chi se ne sta in disparte senza più disturbare in attesa della fine. La verità non è questa, la vita continua fino all’ultimo giorno, non solo continua, ma fino a quell’ultimo giorno si hanno le stesse domande. Sono ancora lì i dubbi e le questioni che avevamo in testa quando eravamo quindicenni. Perché rinunciare all’idea di una vita che può continuare a essere vissuta? Perché sprecarne le potenzialità? Nessuno è uno standard, nessuno è una figurina da attaccare su un album. Tutto questo è l’effetto provocato da un sistema di comunicazione che isola per categorie e fa delle persone e delle vite stereotipi immobili inconsciamente indotti a riprodurre sempre le stesse dinamiche. Ci troviamo a pensarla uguale e non guardiamo mai nella direzione in cui la vita è interessante, in cui la vita ha qualcosa di particolare che ci aiuta a capire noi stessi, il nostro essere in cambiamento. Un libro si fa non solo perché aumenta lo sguardo sul mondo, ma anche perché amplifica la nostra umanità, il nostro modo di guardare quello che ci accade intorno, la nostra capacità di porci continuamente domande. Il libro si muove volutamente in questa direzione. La letteratura vera non consiste nel ripetere lo sguardo sull’esistente, ma nel cercare quell’interstizio posto tra la propria visione del mondo e quella generalizzata e comunicata dalla società. Fare letteratura vuol dire cercare quell’angolo d’osservazione che permette di traguardare, di guardare obliquamente come stanno le cose. Ci si prova.
La chiesa è il palcoscenico su cui si svolge la messa in scena dell’esistenza, la sacrestia il dietro le quinte da cui la si osserva, interpreta, commenta. Perché la scelta di questo punto di vista obliquo?
L’obliquo è la giusta chiave di lettura del libro, si collega direttamente al concetto oppositivo di palcoscenico-scena. La scelta ha seguito però un percorso più complesso, non così immediato come si potrebbe pensare dandone la definizione. La scelta è il momento finale in cui ci si mette a scrivere dopo che le percezioni accumulatesi nella mente guardando, osservando, vivendo sono diventate idee. Ma le idee non sono niente. Quelle percezioni, cui si sono aggiunte le idee, hanno iniziato a prendere le fattezze concrete di personaggi. Dai tanti ragionamenti, dalle tante osservazioni ho ricavato prima di tutto il personaggio, con quella voce lì. All’inizio seguire la voce di Tilio che parla tra sé può risultare impegnativo, eppure in molti mi hanno detto che una volta assecondato quel movimento del pensiero si riesce a entrare nel libro e le pagine iniziano a scorrere con più facilità. L’intento era di creare una dimensione in cui il lettore sarebbe entrato e uscito dalla testa di chi osserva le cose così da poterle vedere sia dal suo punto di vista sia, allo stesso tempo, mantenendo un’obliquità rispetto a quello sguardo, una differenza rispetto alla visione personale che Tilio riproduce. L’intenzione è stata di non appiattirsi sul suo sguardo, ma di costruire qualcosa che fungesse da interstizio tra quello che Tilio vede e quella che è la percezione dell’esterno e delle sue relazioni. Il riferimento al teatro è puntuale, tutta la prima parte del libro è volutamente priva di una trama definita. Mi sono domandato spesso se un lettore sarebbe riuscito a proseguire oltre senza che nulla si definisse. Accade molto, ma tutto si costruisce attraverso il pensiero dei personaggi, alla trama tradizionale è dato un ruolo minoritario. In tutta la prima parte del libro non c’è nulla che sembri cominciare per concludersi, solo più in là le storie cominciano a delinearsi. A un certo punto la trama emerge, le storie si intrecciano e si edifica la struttura del romanzo. Mi chiedevo fino a che punto sarei potuto arrivare, ma quella formula era fondamentale per entrare dentro la dimensione pseudo-teatrale in cui sono inseriti i miei personaggi. I loro corpi si incontrano, si scambiano informazioni, parlano di loro e attraverso di loro dialogano con l’altro in un complesso sistema di avvicinamento e allontanamento. La parola passa attraverso i corpi parlando una lingua creativa, ma allo stesso tempo fallace perché si presta a fraintendimenti. La lingua non è fatta per comunicare, è fatta per esistere. L’uomo non solo comunica, ma parla e la parola ha in sé il rischio di non essere compresa. Tutti gli esseri viventi comunicano, alcuni con codici molto complessi, ma solo l’uomo parla. La difficoltà era raggiungere un realismo che non fosse da fotoromanzo o da sceneggiato. Il libro nasce da questo intento. Si deve cercare di far parlare la lingua stessa attraverso i corpi che la esprimono, attraverso la dimensione in cui si realizza. È in questo senso che ci si muove tra scena e palcoscenico. In tutta la prima parte questo movimento viene riprodotto ricorrendo al concetto di obliquità. Un’obliquità di sguardo che passa appunto attraverso i due protagonisti. La prossimità, la vicinanza continua che li porta a condividere strettamente uno spazio, da un lato aiuta la comprensione, ma dall’altro facilita il fraintendimento. Si pone la necessità di capire i corpi e il loro linguaggio affinché la comprensione possa essere più efficace del fraintendimento. Tutto questo non può che produrre situazioni di comicità. Il loro rapporto di simpatia e antipatia crea lo spazio in cui prendono forma le tensioni che spesso ci sono tra le persone. Quei fraintendimenti riproducono la condizione di comico che si riscontra nel reale flusso delle nostre vite. «Una sola volta Tilio ha dato l’idea ma vedi poi, dice tra sé, come è andata»: la comicità è lì, nel fraintendimento continuo e inevitabile che si manifesta quando gli esseri umani si confrontano.
Nel libro i protagonisti sono entrambi sacrestani, un ruolo di servizio, piuttosto nascosto e con pochissimi precedenti letterari. Com’è riuscito a ricostruirne la quotidianità?
Di letterario c’è la coppia. Non facciamo tutto l’elenco, ma la coppia di personaggi che si rimpalla le parti di un certo discorso, di un certo punto di vista sul mondo, è secondo me profondamente letteraria.
È meno letterario, invece, raccontare il lavoro. Questa difficoltà c’è sempre stata nella letteratura, in particolare in quella italiana. Il primo romanzo di Svevo, Una vita, è uno dei pochi in cui troviamo un capitolo su come si lavora in banca e secondo me è uno dei più interessanti. Quando si racconta il lavoro più tardi, negli anni Sessanta e Settanta, l’ideologia è talmente forte che il lavoro non viene raccontato in quanto tale, ma come sfruttamento e sacrificio, con uno sguardo, secondo me, che non permette di vedere la routine. È tremenda la routine. Passiamo gran parte della nostra giornata lavorando con gli altri, è possibile che ciò non sia narrabile? Secondo me sì, con fatica e con attenzione, cercando il punto di narrabilità, che deve essere appunto obliquo, ma non estremo, perché altrimenti diventa caricaturale. Per quanto riguarda l’aspetto pratico, posso anche suggerirvi la bibliografia: c’è un manuale del sacrista e in tutte le chiese ci sono i libretti della liturgia, che si possono studiare. E poi esistono dei siti in cui si discutono proprio i problemi dei sacristi. Non sono un praticante, però entro in chiesa volentieri, perché le chiese sono la nostra cultura, i nostri monumenti più belli e contengono dei capolavori straordinari. Insomma, c’è un’esperienza personale nella conoscenza della chiesa, nell’osservazione di certe cose. Quindi si tratta sempre di scrivere di ciò che ha uno sfondo di possibilità, se non di realtà.
La natura dei personaggi emerge dalla loro identità linguistica più che dalle azioni. Qual è stato il processo di scrittura che ha portato a tale caratterizzazione?
Io scrivo poesia e in passato ho avuto a che fare con la scrittura dialettale. In questo ambito abbiamo avuto grandi poeti, tra cui Raffaello Baldini, che ha creato dei personaggi strepitosi proprio a partire da questo modo di parlare confabulatorio. Credo la voce di Tilio venga proprio da quella tradizione. Ritengo che l’esperienza letteraria più importante che possiamo fare sia quella di avere coscienza della lingua. Si tratta di una realtà viva, non è solo comunicazione, è piena di passato, piena di altrove, piena di aspetti che non conosciamo, che ci interrogano. Voler caratterizzare l’ambiente, i personaggi, la storia stessa attraverso una lingua viva è stato un passo importante nella mia esperienza letteraria e, stavolta, ancora di più rispetto al passato.