Intervista a cura di Caterina Matera e Dea Merlini, allieve della dodicesima edizione del master «Il lavoro editoriale»
Il suo romanzo tocca temi come marginalità, alterità, emigrazione. Liborio è un “cocciamatte”, lui stesso lo riconosce, ma la sua follia non è poi così distruttiva. Il protagonista, grazie alle sue eccentriche risorse, riesce a garantirsi una sorta di salvezza mentre sventure maggiori gravano sulle vite dei “sani” che lo circondano. Qual è il confine tra l’alienazione e la capacità di sovvertire la realtà sociale nel personaggio di Liborio?
Ho due risposte da dare nell’immediato. La prima è che la figura di Liborio potrebbe rientrare all’interno di quella storiografia del Novecento che ha studiato la marginalità, cioè chi è fuori margine, chi è al di fuori della cosiddetta logica formale; una storiografia che tende a ridimensionare una concezione eroica della storia. A suo modo Liborio è un eroe che non avrà mai la sua statua in un parco, oppure il suo nome in una via e guarda il mondo da una periferia esistenziale. Può darsi pure che Liborio sia infelice, ma in ogni caso lui non vuole diventare come gli altri, come quelli che lo perseguitano. L’ “anormalità” in questo senso è una forma di possibilità, di cambiamento. Io penso che dalla follia – in ogni forma, nella forma in cui l’abbiamo conosciuta attraverso questo personaggio – può scaturire un’incredibile visione di energia, un’emissione di situazioni, di forze a volte incontrollabili che possono rovesciare il sistema costituito. La follia come leva per sovvertire il sistema delle normalità. In effetti, se prendiamo un autore molto importante come Foucault, lui ci dice che i vagabondi, gli idioti, i poveri, i folli, quelli senza fissa dimora, non rientrando nella logicità moderna del valore borghese dell’utilità, della normalità, del lavoro produttivo, della ricerca del profitto ma essendo esclusi o autoesclusi da questo, cominciano a riempire quei manicomi che una volta erano i lebbrosari del 1200, 1300. La follia nasce con la classe borghese, la storia della borghesia ci insegna questo. La domanda è molto bella, sono domande molto intense, molto piene. L’alienazione liboriana diventa un modo per sovvertire, per rifiutare la normalità, la banalità. Liborio è un po’ una figura da Spoon River: come dice anche De André, se immaginiamo una piazza divisa da un fascio di luce, da un lato c’è Liborio e dall’altro la gente. E non potendo esprimere i suoi sentimenti con le parole lui li esprime con i silenzi, con la balbuzie, con dei gesti che sono in qualche modo di rifiuto e di rivolta. Lui le chiama «cattiverie rivoltose», contro i «segni neri» dell’esistenza. «E la luce del giorno si divide la piazza / tra un villaggio che ride e lo scemo, che passa», dice la canzone di De André che riprende l’Antologia di Spoon River. Frank Drummer è lo scemo del villaggio che imparò la Treccani a memoria per stupire «e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggerlo matto». Questa canzone mi ha ispirato. Noi possiamo studiare la storia attraverso la vita di un mercante, di un eretico, di un contadino, senza parlare per forza d’imperatori, di papi, di principi, di grandi personaggi. L’alienazione come energia che scardina. Penso a Qualcuno volò sul nido del cuculo, a tanti film con quelle figure li.
La “pazzia” di Liborio sembra raggiungere il suo picco in concomitanza con la sua esperienza lavorativa in fabbrica. Considerando che la catena di montaggio è emblema della società moderna, quanta responsabilità politica e sociale c’è nella sua “pazzia”? Qual è l’interrelazione tra follia, emarginazione e sistema socioeconomico?
L’interazione è forte. Se partiamo dalla scena in cui Liborio picchia il capo reparto, possiamo dire, fondamentalmente, che da lì nasce la sua esperienza del carcere e del manicomio. Qual è la domanda che fa Liborio? Liborio fa un calcolo dei pezzi che produceva: in una settimana ne faceva seimila, in un mese diciottomila. Allora fa un conto e arriva a una cifra spropositata di circa seimila pezzi di bulloni e rondelle, costruiti quando lavorava alla Ducati, in otto anni di lavoro. Lui vuole sapere semplicemente dove sono finiti quei pezzi. Allora chiede: sono finiti in un trattore, in una motocicletta, in una 750GT? E la risposta è arrogante, il capo reparto si rifiuta di dare una risposta. Liborio in quel momento pone un problema molto serio, ovvero io produco questo lavoro e alla fine divento schiavo di quello che ho prodotto. Non credo che Liborio conoscesse Marx, però in effetti, il discorso che fa Marx tra il lavoro salariale e il Capitale è proprio questo. Il Capitale diventa produttore di merci e mercifica anche l’uomo. Mentre il lavoro dovrebbe essere espressione della spiritualità umana, diventa invece una sorta di schiavitù per cui la merce domina colui che l’ha prodotta. quindi scatta questa alienazione. Come in Feuerbach, l’uomo inventa Dio poi Dio domina l’uomo. C’è tutta questa situazione di perdita del senso di sé, che poi si trascina fino ai nostri giorni. Da ciò deriva il concetto di esistenza inautentica: come dicono gli esistenzialisti, un’esistenza oggettivata, dominata dalla chiacchera, dall’inautenticità dell’esistere. Pensiamo alla bella e divertente immagine di Charlie Chaplin quando viene schiacciato dagli ingranaggi della macchina, l’esempio della ripetitività del gesto e così via. Arriviamo a quello che dicevi tu, cioè il percorso secolare legato allo sviluppo del capitalismo ci conduce alla pluridimensionalità dell’uomo, paradossalmente Liborio è colui che in qualche modo raffigura la teoria marcusiana dell’uomo a una dimensione, l’uomo che vive una vita inautentica. Nel rapporto tra Liborio e la fabbrica, tra Liborio e i pezzi che produce, tra Liborio e il sistema economico complessivo c’è questo scatto di rivolta che non modifica lo stato di cose del presente, perché questo dovrebbe presupporre il passaggio dall’io al noi, dovrebbe diventare qualcosa di corale, di collettivo per poter trasformare la realtà. Il sistema economico, quindi, emargina e poi perseguita e definisce folli gli stessi emarginati. Qui il cerchio si chiude, ma non sempre il cerchio è rotondo. A volte la non rotondità del cerchio può causare delle rotture e mettere in crisi il sistema. In conclusione, Marcuse diceva che quelli che possono cambiare il mondo non sono neanche gli operai, i sindacalizzati che sono dentro al sistema ma le teste folli, anarchiche. Liborio può rientrare, paradossalmente, in questa visione unidimensionale. Insomma, a me diverte molto Liborio così come è raffigurato – è merito vostro che vengano fuori Marcuse, Heidegger – che poi la cultura è più semplice di quello che ci vogliono far credere.
La sua scrittura amalgama genere picaresco, agiografia, ballata popolare e romanzo storico propriamente detto, attraverso l’uso di un linguaggio vivace, gergale, espressionistico. Come si è svolto il lavoro sul testo considerando tale mescolanza di generi? Qual è stata la sua ricerca sulla lingua?
Liborio è una voce che cammina, cammina nella storia con altre voci. Gli elementi costitutivi del libro sono tre: gli eventi che accadono, come abbiamo detto, arrivano fino ai nostri giorni – ci sono anche le torri gemelle, manca solo il coronavirus tra i «segni neri»; poi c’è il personaggio; infine la lingua, che deve essere coerente con il personaggio. Liborio è un vecchio signore che ha più di ottant’anni e vuole scrivere la sua vita. Un po’ come fa Rabito in Terra matta di Einaudi, scritto in dialetto siciliano, incomprensibile. Liborio non essendo scolarizzato scrive come pensa e parla. Quindi è una lingua che non è dialetto, ma è fatta di gergalismi, di parole fantasiose soltanto sue; si mischia con l’italiano e diventa un po’ meticciata, una lingua in chiaroscuro. A volte si comprende e a volte no, perciò ho visto nel glossario la possibilità anche di un divertimento, utile per capire il significato di certe parole. Mi ricordo che a Genova incontrai Diego De Silva e parlando del libro mi disse che la parola che lo aveva colpito di più – lo ha scritto anche nella recensione su La Stampa – era addosolare, un termine che non si usa più perché è un termine del Medioevo, vuol dire «ascoltare». «Mi devi addosolare, mi devi ascoltare.» Deriva da un latino medievale e così via. Far parlare Liborio come avrebbe parlato o scritto, non so, Manzoni oppure Proust sarebbe stato contraddittorio. La lingua è adeguata alla psicologia del personaggio e quindi è un italiano dialettizzato, o un dialetto italianizzato. Questa lingua non esiste neanche nella zona in cui vivo. E poi la ricerca è nata dal fatto che io ho sempre parlato il dialetto sin da quando ero piccolo. Mio padre era un maestro di scuola elementare che ho raffigurato nella figura del maestro Cianfarra Romeo che poi esiste veramente, è stato il mio maestro alle elementari. È una figura che mi è rimasta molto impressa nella mia storia. Io il dialetto l’ho sempre coltivato, lo parlo continuamente. Questa ricerca sulla lingua, quindi, è nata da esperienze personali, dall’esigenza di trovare un ponte di raccordo tra gli eventi narrati, perché Liborio raccontando sé stesso racconta la Storia. La storia del Novecento passa attraverso la testa di Liborio e anche attraverso la sua lingua ,che, appunto come dicevo, è fatta di gergalismi, è non convenzionale. Ho immaginato un vecchio signore che vuole parlare in italiano, non lo conosce, si sforza di farlo e vengono fuori delle immagini stupende dal punto di vista linguistico, sintattico. Anche perché il matto si ripete, le cose le dice più di una volta come abbiamo visto nell’incipit. Questo perché colui chi si sente matto vuole essere compreso dalla comunità, vuole farsi ascoltare, vuole far parte della comunità. Ed è giusto perché in una comunità ci sono gli insegnanti, gli idraulici, i geometri, i muratori e ci sono anche i matti. Liborio è un idiota esemplare, direbbe Ermanno Cavazzoni. È un modello sociale, fa parte della società anche lui, per questo motivo la sua lingua deve essere adeguata. Un Liborio che parla pulito è impensabile, non avrebbe senso, come non avrebbe senso un Eduardo che rinuncia al napoletano. Il lavoro sulla lingua è stato molto lungo, ho parlato anche con esperte di dialetti. Anche nelle nostre zone, nel centro della mia città, nel centro di Lanciano, si parla un dialetto che è diverso da quello della contrada che sta a cinque chilometri, cambiano le vocali, sono più aperte o più chiuse. È qualcosa di bellissimo: è molto più facile imparare l’inglese o il tedesco.
La biografia del protagonista s’intreccia con avvenimenti storici rilevanti, la memoria individuale si mescola a quella collettiva. Quel funambolesco magma che è la memoria di Liborio in che misura può essere considerato come una cassa di risonanza per la memoria collettiva?
Bella domanda, è come dicevo prima. In effetti rendere un personaggio come Liborio, come il narratore, come se fosse l’autore di una cronaca di un tempo lungo – quello che Eric Hobsbawm chiamava «il secolo breve» per capirrci – è un primo miracolo. Liborio è uno sguardo che parla e parla dal suo punto di vista, periferico, fuori margine. Abbiamo fatto l’esempio della fabbrica, l’esempio del manicomio, possiamo aggiungere quel capitolo a cui tengo molto in cui Liborio racconta le vicende del 5 e 6 ottobre 1943, della rivolta lancianese contro il nazismo, un episodio che è segno d’orgoglio per Lanciano, che ha la medaglia d’oro della Resistenza anche per questo. Liborio racconta quello che mi ha raccontato mio padre, che aveva diciassette anni nel ’43 e vide questo corri corri di gente. Liborio diventa il protagonista della memoria che è la sua ma anche di altri. Lui racconta ciò che vede: i morti giovani, il fuoco, la piazza. Ricordando invita gli altri a ricordare, invita gli altri a capire e a comprendere il senso di quello che accade nella Storia, nella vita. Certamente la sua memoria, che è personale e anche distorta perché vede le cose in un modo molto particolare, diventa la possibilità di capire che nella Storia è fondamentale spingere per un passaggio dall’io chiuso in sé stesso – dall’egoismo, diciamo così, o dalla egoità se vogliamo – , al noi, alla collettività. La memoria invitando a ricordare diventa memoria collettiva, diventa possibilità di una trasformazione. È la voce individuale che diventa coro, diventa coralità e la coralità cambia il mondo. L’individuo, certo, può avere un gesto di rivolta. Paradossalmente Liborio non è un anarchico, è una persona organizzata, perciò fa l’esperienza del sindacato, lui si definisce fiommista perché si iscrive alla Fiom. La sua vita si svolge tra stupore, dolore e meraviglia. La meraviglia lo porta a farsi domande. D’altra parte Aristotele diceva che i filosofi principiarono a filosofare attraverso la meraviglia. Se io non mi meraviglio non mi faccio domande. Liborio si meraviglia tra stupore e dolore e si pone delle domande, domande che in qualche modo possono modificare la realtà in un senso piuttosto che in un altro. Le sue domande sono anche le domande degli altri, cioè l’alienazione nel lavoro, la sofferenza, la diversità. Liborio è un neurodiverso, diciamo così, ma le sue domande sono in fondo anche le nostre domande. Liborio ci cammina a fianco, ci respira dentro e ogni tanto ne abbiamo bisogno per renderci conto che quello che accade non è causale, ma ha sempre la sua ragion d’essere e la ragione può essere rovesciata da altre forme di razionalità che non siano quelle dominanti.
La storia della letteratura occidentale è costellata di presunti “matti” o “scemi” che, in realtà, sembrano sviluppare un punto di vista sul mondo tutt’altro che insensato. Pensiamo al “fool scespiriano”, a Don Chisciotte, a L’idiota di Dostoevskij. Come si colloca Liborio all’interno di questa tradizione?
Il fool di Shakespeare è una parola che può essere intesa come lo scemo, il pazzo, lo scemo di guerra di cui parla Ascanio Celestini nel suo teatro. Storicamente indicava anche il buffone, il giullare, cioè colui che instilla dubbi e riflessioni negli altri, nelle persone normali, che prende in giro i potenti senza farsene accorgere. L’atteggiamento dello scemo del villaggio, del folle, dell’idiota esemplare di Cavazzoni lo porta ad avere un effetto sulle sorti della Storia. Ricordo un film, Un uomo chiamato cavallo con Richard Harris, in cui c’è un personaggio francese di nome Batise catturato dagli indiani. Perché Batise non viene ucciso dai Sioux? Non viene ucciso perché si finge pazzo, perché il pazzo è una specie di profeta, un portatore di entusiasmo. la stessa parola entusiasmo deriva dal greco, è composta dalle parole en (dentro) e thèos (dio), cioè «invasato dal dio» praticamente. Essendo invasato dal dio, non sono più una persona normale, posso dire quello che voglio e quello che dico diventa profetico, diventa sciamanico. Questo invasamento, questa follia di Liborio, che diventa energia che si esprime all’esterno, è un’esperienza comune a molti. Se immaginiamo la letteratura come un cortile, come in un libro di molti anni fa di Walter Mauro, vediamo che è piena di queste figure. Il principe Miškin dice una delle frasi più belle che troviamo in letteratura «La bellezza salverà il mondo», ma anche l’innocenza. E allora Liborio è una via di mezzo tra Don Chisciotte, con le sue visioni, e Forrest Gump, se vogliamo, con la sua ingenuità. Liborio rappresenta un tentativo, una possibilità, una sorta di angelo inconsapevole che ci spinge a recuperare l’innocenza perduta, quella che potrebbe farci vedere le cose nella giusta dimensione, come in quell’appello «Restiamo umani». In questo senso, il libro l’ho inteso come – e me ne sono accorto alla fine – un libro di porti aperti e non di muri alzati. Ma non solo Don Chisciotte e Forrest Gump, anche Gimpel l’idiota di Singer, che dice «Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi chiama la gente»; oppure Macario di Juan Rulfo, ne La pianura in fiamme, che metto anche come citazione: «Dicono in giro che sono matto, perché non mi passa mai la fame». È un personaggio alla Spoon River come Frank Drummer, come il Mattia Lovat di Sebastiano Vassalli. Questi sono tutti matti. Anche Vite di brevi idioti di Cavazzoni, oppure Savini e Gonella ne Il poema dei lunatici, sempre di Cavazzoni, da cuiFellini trasse un film: La voce della luna. Anche Una banda di idioti di John Kennedy Toole. Sono tutti personaggi che rappresentano la marginalità, però dicono sempre delle cose per cui ti spingono a fare i conti con loro. Se li ignori, ignori te stesso. Quando noi vogliamo dimenticare, isolare il diverso, ignoriamo una parte di noi. Questo è un libro sull’accettazione della diversità, un libro sull’accoglienza, potremmo dire in senso molto lato. Spero che chi lo legga lo legga in questo modo. Ho scritto una cosa per divertirmi, si chiama Fuori margine, l’ho autoprodotto diciamo così. È un libro in cui ci sono venti Liborio, venti matti della mia città: dal professore di lettere che odia Manzoni al sacrestano ateo. Sono tantissimi personaggi e ci sta dentro anche Liborio naturalmente, con tutti gli alienati di Géricault. Il principe Miškin è il capostipite, però anche Bouvard e Pécuchet di Flaubert. La stranezza in fondo è una forma di anomalia e direi che Liborio è il rappresentante di una normale anomalia, un ossimoro psicologico. Quindi nella letteratura come un cortile e nel cortile, piano piano, «mufo mufo» direbbe lui, entra anche Liborio e incontra il principe Miškin, Bouvard e Pécuchet, Macario e tutti i matti che sono presenti nella nostra dimensione. Forse pure noi siamo in un angolo e non ci vedono, non vediamo neanche noi gli altri. Nei Frammenti di un vangelo apocrifo Borges diceva: «nessuno è il sale della terra; nessuno, in qualche momento della sua vita, non lo è». E poi andiamo sul pesante, mi ricordo una frase di Hegel, il filosofo idealista che nei Lineamenti di filosofia del diritto scrive: «L’uomo più odioso, il delinquente, lo storpio, un ammalato sono pur sempre uomini». Il positivo, la vita, esiste malgrado il difetto ed è questo positivo che bisogna ascoltare, che bisogna considerare. Ora, detta da un filosofo conservatore come Hegel questa frase mi ha colpito molto. È in fondo quello che diceva un vecchio ciabattino da cui andavo quando ero ragazzo che se gli portavi due scarpe te ne rendeva una sola: «la società è avariata, ma è pur sempre umanità umana». Mi fa sorridere il fatto che un ciabattino che non sapeva né leggere né scrivere dica la stessa cosa di Hegel. Mi piace trovare in queste figure così minime e marginali queste cose che sono dentro di loro.