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Intervista a Simone Caltabellota, editore di Edizioni di Atlantide

Intervista a cura di Leonardo Ducros, allievo della nona edizione del master «Il lavoro editoriale»

Simone Caltabellota ha lavorato come editor, traduttore e scrittore. È stato direttore editoriale di Fazi Editore e creatore del marchio Lain.  Come autore ha pubblicato Il giardino elettrico (Bompiani, 2010), Sa Reina (Ponte alle Grazie, 2013), Un amore degli anni Venti. Storia erotica e magica di Sibilla Aleramo e Giulio Parise (Ponte alle Grazie, 2015).

Nell’autunno 2015 hai fondato Edizioni di Atlantide insieme a Francesco Pedicini, Flavia Piccinni e Gianni Miraglia. Da dove nasce il progetto della casa editrice?

Innanzitutto nasce con l’idea di fare dieci titoli l’anno, con copie numerate e con un certo tipo di distribuzione, questo era il progetto. E ancora prima nasce dall’incontro di varie persone. Ho lavorato undici anni da Fazi, ho scritto i miei romanzi, ho fatto una casa discografica e ho collaborato come consulente per varie case editrici. A un certo punto non volevo più lavorare come interno, ma creare un marchio che fosse diverso da quelli esistenti. Conoscevo già le altre persone e con qualcuno di loro ci eravamo detti che prima o poi avremmo fondato una casa editrice insieme. E, come spesso succede, ci siamo ritrovati in un momento in cui tutti noi pensavamo di creare qualcosa del genere, eravamo pronti per farlo, e ci abbiamo lavorato divertendoci, finché non sono venuti fuori il nome e il logo.

Sapevi già quali titoli avresti voluto pubblicare?

Sì, all’inizio avevo già in mente i primi libri, pensavo a Nathan, a Wilson, e credevo che nel primo anno avremmo pubblicato solo autori del ‘900. Poi è arrivata Nada, che è una persona straordinaria, con cui avevo già lavorato agli altri suoi libri, e mi ha detto che voleva pubblicare con me il suo nuovo romanzo. Questo è stato fondamentale, perché così abbiamo iniziato subito a fare anche autori contemporanei, ed è andato benissimo, fra poco faremo la quinta ristampa. Gli altri erano libri che avrei voluto pubblicare anche prima, ma non c’ero mai riuscito. Nathan, per esempio, era stato pubblicato in passato, negli anni ’50, ma era completamente dimenticato, non era stato ripubblicato nemmeno in America. Sai, se lavori in una casa editrice che pubblica tanti libri l’anno, quando mandi una mail per chiedere i diritti di un libro e ti rispondono “non lo rappresento più, non so chi lo rappresenti adesso”, finisce che ti metti a fare altre cose e te ne dimentichi. Invece con Atlantide è stato diverso, ci abbiamo messo un po’ di tempo, ma alla fine abbiamo rintracciato i detentori dei diritti; del resto siamo una casa editrice di outsider, e quindi per noi quello di Colin Wilson davvero era uno dei testi fondativi, non potevo non pubblicarlo, così come Ritratto di Jennie, che segna il mio interesse per un certo tipo di narrativa, ovvero una narrativa che riesca ad essere realista ma anche fantastica, un elemento che si trova in tutti i romanzi che abbiamo pubblicato.

E per la saggistica c’è anche Tilgher, che ha offerto un percorso alternativo per la filosofia di inizio novecento. Sono titoli che danno delle direzioni, che stanno bene insieme. Quello che deve fare una casa editrice, secondo me, è avere un catalogo fatto di titoli che parlano l’uno con l’altro. Non devono essere tutti uguali, ma esprimere una sensibilità. Poi è chiaro che i nostri sono titoli per lettori attenti, libri leggibilissimi ma che richiedono una curiosità, la stessa che chiediamo a quei lettori che non ci trovano nelle grandi catene e su Amazon e ci vengono a cercare nelle librerie indipendenti o sul nostro sito. Sono libri che rispondono al modo in cui viene veicolata la nostra distribuzione.

E qui arriviamo alla particolarità di Edizioni di Atlantide: la distribuzione.

Abbiamo scelto di dire di no ai distributori e alle grandi catene, ed è una scelta anche politica, di campo, dovuta a due cose in particolar modo. Primo, sia io che le persone con cui lavoro non ci riconosciamo nello schema corrente secondo cui un libro esce, sta sullo scaffale delle librerie per qualche settimana e poi muore. Non ha senso. Questo sistema ti costringe, come editor, a fare libri che immagini possano arrivare immediatamente ai lettori, il che significa escludere tutti i libri che hanno bisogno di un certo grado di attenzione e curiosità, che sono i libri che in genere scegliamo di pubblicare. Secondo, perché c’è un problema distributivo. Una casa editrice che nasce e vuole fare pochi titoli si ritrova schiacciata in questo sistema, che ti chiede di pubblicare sempre di più, e quindi la nostra diventa una scelta anche economica, di sopravvivenza. Pensiamo noi alla nostra distribuzione, facendo dei conti deposito, sconto uguale per tutti al 35%, lavorando su tutto il catalogo e non solo sui titoli che vendono di più.

È per questo che voi parlate di “librerie fiduciarie”.

Esatto. Se una libreria non fiduciaria, anche appartenente a una grande catena, ordina una singola copia, noi gliela vendiamo, però con il 15% di sconto e pagamento anticipato. Pagamento reale, non c’è diritto di resa. Spediamo la copia pagando noi un corriere, ma poi è venduta. Se la vuoi, queste sono le condizioni.

Quindi fisicamente esistono i libri di Atlantide nelle grandi catene?

No, perché questo sistema si applica alle singole copie che vengono ordinate per i clienti che le richiedono. Non ci sono copie in scaffale.

Anche su internet siete reperibili solo su determinate piattaforme.

Sì, non siamo su Ibs, non siamo su Amazon, siamo solo sul nostro sito e su uno store online che è legato al magazzino a cui ci appoggiamo e che si chiama Tabook. Ha solo i libri degli editori indipendenti che stanno in quel magazzino.

Scegliere di non essere su Amazon e nelle grandi catene significa vendere di meno?

Dipende, mille copie oggi sono tante. E fare mille copie di Filosofi Antichi e venderle tutte significa averne vendute tante davvero. Certo, in altri casi, come L’outsider o Leonida, se avessimo scelto di essere presenti ovunque forse avremmo venduto anche di più, però essere coerenti a una scelta, ragionando sull’intero catalogo, penso che nel lungo periodo sia la cosa migliore. Poi magari tra dieci anni non so cosa succederà, quando avremo cento titoli sarà difficile gestirli. È difficile mandare cento titoli a una libreria. Ora lavoriamo con circa centosessanta librerie, l’ideale sarebbe fermarci a centottanta, duecento. Noi usciamo con una media di almeno seicento copie a titolo, che forse è lo stesso numero con cui usciremmo se lavorassimo con un distributore. In quel caso Filosofi Antichi non sarebbe uscito con seicento copie, ma in quantità inferiore, perché considerato commercialmente poco interessante. Magari Leonida sarebbe uscito non in mille copie, come è stato distribuendolo autonomamente per conto nostro, ma con un numero di copie più alto, però Tilgher e Wilson sarebbero usciti massimo a trecento copie.

E questo è il contrario di quello che succede spesso, ovvero puntare su pochi libri che vendano molto per finanziare il resto del catalogo. Edizioni di Atlantide, invece, stampa lo stesso numero per ogni titolo: novecentonovantanove copie. Questo si riflette anche nella gestione del piano editoriale?

Per ogni libro che facciamo, noi dobbiamo vendere tutto. L’idea è avvicinarsi il più possibile alle novecentonovantanove copie, o almeno cercare di superare sempre la soglia delle seicento. I nostri dieci titoli escono in quattro uscite da due o tre libri, distribuite nell’arco dell’anno. È chiaro che andando verso l’estate immagini più romanzi che saggi, ma finora non mi sono mai posto il problema di spostare l’uscita di un libro per farlo risaltare rispetto agli altri. A breve uscirà L’estate che sciolse ogni cosa di Tiffany McDaniel, una scrittrice americana esordiente. Se fossimo andati al Salone di Torino avremmo cercato di portarla con noi. Poi abbiamo deciso di non andare, per cui tutto questo discorso è venuto meno e diventava inutile anticipare l’uscita del libro.

La scelta di non essere a Torino a cosa è dovuta?

Quest’anno non siamo stati né a Tempo di Libri né al Salone. L’anno prossimo vedremo. Ci sono delle ragioni per cui abbiamo preso questa scelta. Tempo di Libri nasceva su delle premesse discutibili. L’editoria indipendente si è sentita in qualche modo non coinvolta, poi noi non siamo nemmeno iscritti all’AIE, quindi figurati.

Per Torino, invece, ci sono state varie ragioni. Nicola Lagioia e il suo staff sono stati bravissimi, però questa formula, e in generale l’idea di fiera per com’è adesso, non ci rappresenta molto, ma capisco che Torino, che è un Salone così grande, abbia delle ragioni diverse. Però sarebbe bello immaginare delle fiere del libro che coinvolgano il lettore in modo diverso, meno passivo. La nostra fiera ideale, di cui ci sentiamo parte integrante, è Bookpride. Per esempio una cosa di cui sono molto orgoglioso, e in cui sono stato coinvolto con altri editor come Vanni Santoni di Tunuè o i ragazzi di Racconti Edizioni, è un gruppo di lettura di racconti inediti che abbiamo organizzato al Bookpride di Milano lo scorso marzo. Abbiamo selezionato una decina di inediti di esordienti che sono venuti lì e sono stati letti e commentati pubblicamente da noi editor. Secondo me è una cosa bella perché apre il lavoro editoriale al pubblico e dà modo a chi scrive di avere un confronto diretto senza dover pagare niente. E poi crea un rapporto che sia più un dialogo, e più biunivoco, sarebbe bello portare avanti questa cosa. Ecco, la mia idea di fiera del libro, al di là della vendita e della presentazione della novità dello scrittore famoso o meno famoso, è superare un modello del genere. Certo a Torino è un po’ più difficile, ma è giusto che Torino esista nel modo in cui esiste da trent’anni. L’anno prossimo forse ci andremo, vedremo, però francamente non è decisivo per noi andare a Torino o a Milano. Forse siamo un po’ fuori da un certo tipo di mentalità, non lo do come qualcosa di positivo o negativo, è semplicemente così, stiamo immaginando la nostra casa editrice lontano in tutto dalle modalità “tradizionali”.

Sul vostro sito posso consultare il catalogo tutto insieme o suddiviso per genere: narrativa, saggistica, illustrati, poster d’autore (sotto “altro”) e poi c’è una sezione, vuota, che si chiama “poesia”.

E cominceremo a farla. L’abbiamo fatta mettere dal primo giorno perché ci siamo detti: “prima o poi la faremo”. Come spero che prima o poi faremo dei dischi. Per me la musica è fondamentale; penso che sia importante coltivare varie cose contemporaneamente, avere vari interessi che parlino tra loro. È meglio non interessarsi solo a una cosa, perché poi ti impoverisci, sei limitato. Comunque, per il momento cerchiamo di fare dieci libri l’anno e di far funzionare tutto come questo primo anno, che è andato benissimo. Ma senza farsi prendere dall’ansia. La nostra forza è che non siamo costretti da nessuno a fare libri che non ci piacciono. Che poi io non ho mai pubblicato un libro che non mi sia piaciuto.

Essere editore, anziché editor, ti permette di rischiare di più?

Ora rischiamo tutto, con ogni libro. I primi titoli che abbiamo pubblicato sono stati una dichiarazione d’intenti, in questo senso: Ritratto di Jennie, quando nessuno conosceva Robert Nathan; Filosofi antichi di Tilgher, che pochissimi ricordavano, e quelli che lo ricordavano lo confondevano con il nipote neofascista; e il terzo, Tomaso, un romanzo illustrato degli anni Quaranta. Il quarto libro è stato Fiori fantasma, il quinto L’outsider e il sesto Leonida. Non c’è, non ci può essere, l’idea di dire “questo è difficile”. Non si decide se pubblicare o no un libro a seconda di quanto è difficile. Se un editor dice che non ha pubblicato un libro perché era difficile non è un bravo editor, oppure non è sincero, perché non esiste il difficile o il facile, esiste ciò che ti è piaciuto o ciò che non ti è piaciuto. Oppure: ciò che pensi possa vendere o ciò che pensi che non sia vendibile. Però in questo caso non dici “è difficile”, dici che non è vendibile, se vuoi essere sincero. Soprattutto non ha senso dire “mi è piaciuto, ma è difficile”. È falso oppure denota una mancanza di coraggio, che è sempre necessario per essere un buon editor. Perché il bestseller lo puoi cercare, ma non è detto che arrivi; i successi veri non nascono da un rischio calcolato, nascono dalle intuizioni e dalle coincidenze. Se non ti prendi un rischio e non fai qualcosa che non esiste in giro sul mercato in quel momento, allora non diventa un libro da un milione di copie; altrimenti fai altro, fai le imitazioni di quello che ha già avuto successo… Quindi questo fatto del libro difficile io non l’ho mai capito. Non mi interessa, non mi piace, non è per me. Ma non “è difficile”. In questo senso siamo veramente, assolutamente liberi. Dobbiamo fare l’autobiografia di Colin Wilson che è un libro di seicentocinquanta pagine? La facciamo, perché per me è un libro importantissimo, ci deve essere. Sì, resti fuori dal sistema. Con L’outsider abbiamo guadagnato dei soldi, cosa incredibile, e poi li abbiamo messi nell’altro grande libro di Colin Wilson, Oltre i sogni, la sua autobiografia, perché non si capisce Colin Wilson e la portata fondamentale del suo pensiero nel Novecento europeo senza aver letto entrambi i libri. Sono felice e orgoglioso di aver pubblicato sia L’Outsider che Oltre i sogni. Poi non so se tutti leggeranno le seicentocinquanta pagine dell’autobiografia, però intanto esiste e non era mai stato pubblicato prima in italiano. Riprendo la tua domanda iniziale: nascendo adesso come casa editrice che fa pochi titoli, devi creare il tuo modello, perché altrimenti non esisti. I librai indipendenti non sono forzati da noi a prendere i nostri libri, ma capiscono l’importanza di avere delle opere che non si possono trovare nella libreria di grande catena a 500 metri dalla loro. Ora ci sono le librerie che hanno i libri di Atlantide e le librerie che non li hanno. E una buona libreria, un’ottima libreria, per me non può non avere i libri di Atlantide. È un concetto presuntuoso però sono convinto di questo, perché sono libri importanti, che aprono delle strade.

Voi non separate i vostri libri in collane, però mettete il numero di costa, che dà un senso di continuità, come se i libri facessero tutti parte di un’unica collana.

Sì, è così. Dividere in collane dieci libri non mi sembrava sensato. Chi legge Nathan può leggere anche Sturgeon, Tiffany McDaniel o Matteo Trevisani, un giovane scrittore italiano che esordirà con noi a ottobre; chi legge Leonida può leggere L’outsider. Anche i saggi di filosofia: certo chi li legge deve avere un certo interesse per la materia, però allo stesso tempo può leggere uno dei nostri romanzi. A me piace l’idea che sia una collana unica. Forse faremo un’eccezione l’anno prossimo quando pubblicheremo il nostro primo libro di poesia, che sarà probabilmente un fuori collana, a quattrocentonovantanove copie, probabilmente con un formato diverso, vedremo, dobbiamo ancora capire come farlo.

Parliamo dei poster d’autore, che stanno vendendo molto. Come nasce l’idea?

Li abbiamo dovuti ristampare e stanno finendo, vanno bene. Come sono nati? C’era Bookpride a marzo 2016, avevamo i primissimi titoli e volevamo portare qualcosa di divertente, una specie di gadget, ed è venuto fuori di tutto. Io volevo fare i fiammiferi, i porta-sigarette, e a un certo punto è venuta fuori questa cosa del poster di letteratura, però disegnato da un artista. Emiliano Maggi, che è un artista internazionale. Allora abbiamo deciso di fare due poster, uno per la letteratura americana del ‘900, l’altro per l’italiana, sempre del ‘900. Io e Edoardo Camurri abbiamo fatto gli italiani, mentre per gli americani ci siamo rivolti a Mattia Carratello e Luca Briasco. A Milano abbiamo finito le copie, ne abbiamo venduti tantissimi, allora per Più libri più liberi a Roma abbiamo affidato l’albero della Filosofia a Marco Filoni e Antonio Gnoli. E hanno fatto un bellissimo lavoro, facendo la filosofia dalle origini al 1999. Poi sono in cantiere i prossimi due, che faremo uno a ottobre per Bookpride e l’altro a dicembre per Più libri più liberi.

Ultima domanda sul nome: Atlantide. Da dove viene?

Atlantide, come i libri che stiamo pubblicando e ripubblicando, è qualcosa fuori dal tempo. Può ogni tanto inabissarsi, realmente o metaforicamente, ma poi ritornerà su. Per questo il logo è tagliato: sta emergendo o sta affondando, questo non si sa, per me sta emergendo, ma quello che conta è che fino a metà è immerso. Quindi c’è l’idea che un certo tipo di libro, come quelli di Robert Nathan o di Colin Wilson, sia fuori dal tempo, e anche se temporaneamente scompare è destinato a riemergere. Come Atlantide. Questa è una cosa che io credo profondamente: i grandi libri non sono legati al tempo in cui vengono scritti; lo sono in parte perché nascono in quel momento, ma non sono espressione solo di quel tempo. Quello che non faremo mai, spero, nel senso che a volte sbagli e pensi che qualcosa sia in un modo e invece non lo è, è fare archeologia: un recupero fine a sé stesso. Se dobbiamo ripubblicare qualcosa dev’essere qualcosa che oggi abbia un senso. Riemergi, ma riemergi per dire qualcosa, indicare una strada nuova, o dimenticata.

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