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PROGETTO EFFETTO STREGA: INTERVISTA A ANDREA BAJANI VINCITORE DEL PREMIO STREGA 2025

ANDREA BAJANI PREMIO STREGA

Grazie alla collaborazione tra la Scuola del libro, Fondazione Bellonci e Biblioteche di Roma, le studentesse e gli studenti del master Il lavoro editoriale 2025 hanno avuto, come ogni anno, l’occasione privilegiata di leggere e di intervistare i/le dodici candidati/e del Premio Strega, e di avere un voto collettivo per decretare la cinquina.

Eleonora Boni, Viola Becagli e Michela Belcore intervistano lo scrittore Andrea Bajani, vincitore del Premio Strega con L’anniversario.

Dopo dieci anni di silenzio, il protagonista torna nei luoghi della propria infanzia per affrontare ciò che ha cercato di dimenticare. Come si fa quando trovi una macchia sul muro e devi scoprire da dove arriva. In quella casa asfissiante, dominavano la voce e la presenza di un padre scomodo, autoritario e in grado di annientare tutto con uno sguardo. Al suo fianco, una madre fragile, sottomessa nel silenzio, incapace di proteggere e forse di proteggersi. In quelle stanze si imparava presto a scomparire, a non farsi notare, sopravvivendo ai margini. “L’anniversario” è un romanzo intenso e necessario, che con precisione scava nella memoria di una famiglia disfunzionale, come si scava nella terra dura: per dissotterrare ciò che è stato sepolto, ma anche per liberarsene. È una storia sul dolore che si eredita, sulle ferite che non guariscono ma si trasformano, e sulla scelta – spesso lacerante – di mettere distanza, perfino dalle proprie origini, per ritrovare sé stessi e potersi ricostruire.

Andrea Bajani nasce a Roma nel 1975. Esordisce nel 2002 con Morto un papa edito da Portofranco. Tra gli altri romanzi, ha pubblicato: Cordiali saluti (Einaudi, 2005), Se consideri le colpe (Feltrinelli, 2007) vincitore del premio Lo Straniero e il premio Recanati e Ogni Promessa (Feltrinelli, 2010) vincitore del premio Bagutta. Attualmente risiede negli Stati Uniti dove insegna presso la Rice University di Houston, in Texas.

Parola dopo parola, L’anniversario scava in una vita passata recuperandone frammenti fino a delinearne il profilo. La scrittura diventa un vero e proprio strumento di indagine, e a tal proposito le chiediamo: attraverso la scrittura e la memoria, come è riuscito a ricostruire una versione della storia di cui fino a quel momento non era stato testimone?

La scrittura commercia con l’invisibile. È questa, in fondo, la sua natura più propria, e il suo numero magico. Rende visibile, attraverso un sistema di codici, ciò che è invisibile. Ma lo fa in maniera sofisticata, quasi esoterica: lo fa vedere solo dentro la testa di chi legge, che entra in un mondo visibilissimo – per certi versi realissimo – ma che è solo suo. Che prima era solo di chi scriveva e adesso lo è solo di chi legge, è tenuto in piedi dalle rispettive biografie. Tutto questo per dire che l’indagine in corso in L’anniversario è in fondo l’indagine su un mistero comune e si articola con una domanda comune: “perché una famiglia, che è un organismo pensato come strumento anche di difesa può rendere infelici?”. E quella domanda ha a che fare con il rintracciare gli indizi che erano invisibili durante la vita in tempo reale di un nucleo familiare, quando cioè il narratore era per così dire “testimone”, ma che poi solo la scrittura riesce a scovare a ritroso, dieci anni dopo la fine dei rapporti tra il narratore e i suoi genitori. Lo fa la scrittura, appunto, istituendo il solito ponte tra “inventario” e “invenzione”, cioè tra ciò che trova (nella memoria) e ciò che, combinando quegli indizi, la scrittura trasforma in una storia. In romanzo, per l’appunto. E poi c’era un altro invisibile importante: quello di una madre “invisibilizzata”, con la complicità della cultura patriarcale, dal padre, e non vista per molti anni dal figlio che racconta. Portarla al centro della scena, inventarla nel doppio senso della radice latina (trovarla, e dunque renderla visibile), è il vero motore che muove L’anniversario.

In poco meno di 130 pagine, L’anniversario affronta alcune delle tematiche più difficili da trattare: l’oppressione, la violenza, l’allontanamento e la necessità di riscatto. Tematiche complesse che solitamente corrompono la scrittura, facendo trapelare una forte emotività. Qui, invece, le parole sono scelte con cura, soppesate al fine di rendere con precisione e chiarezza la vicenda. Come è riuscito ad asciugare a tal punto la narrazione?

È stato un processo lungo e brevissimo insieme. Una prima scrittura bruciante, in poche settimane, e poi anni di lavoro successivo. Cioè, per istinto sono prima andato a toccare un tabù della nostra cultura: la famiglia, anche quando violenta, è sacra, intoccabile, e tutto quello che avviene dentro le mura domestiche va taciuto. Ma visto che lo strumento che usavo era – è – il romanzo, la questione centrale era la complessità. Evitare la semplificazione. E siccome il tabù, amplificato dal tema arcaico del “sangue”, porta con sé la strada semplificatoria della “colpa”, scrivere ha significato sottrarsi a quella strettoia. Ho lavorato per anni provando a evitare a ogni riga la via ricattatoria del sentimentalismo. La domanda che sta alla base del libro è esplosiva: ci si può sottrarre al proprio nucleo familiare in una cultura in cui alla famiglia si “appartiene”? Non c’era risposta possibile – mi era chiaro ogni giorno – che non fosse quella estetica ed etica. Lavorare ad articolare la complessità, la profonda contraddittorietà delle spinte e controspinte da cui siamo abitati. Sprofondare nella condizione umana senza scorciatoie. E la lingua era lo strumento primo, doveva esercitare – ancora prima che produrre – nettezza, eticità, frontalità, spietatezza e al contempo profonda empatia per il dolore di tutti.

L’anniversario dà la sensazione che scrivere sia un atto necessario, una forma di resistenza contro lo smarrimento. C’è stato un momento in cui la scrittura ha preso, per così dire, il sopravvento sulla storia?

Scrittura e storia vanno sempre insieme, non possono essere scisse. La loro sintesi è lo stile. Cioè un formulare che produce fatti, e persino memorie che non sono in chi scrive, ma che sono il prodotto della scrittura stessa. Per questo mi interessa il romanzo, come genere. Perché tramite la lingua e la scrittura fa esplodere un mondo del tutto sconosciuto persino a chi porta dentro pezzi di sé. Di nuovo, l’inventario e l’invenzione, e quella comune radice latina (invenire, trovare) che fa fare un salto di immaginario sorprendente. Si parte con una semplice frase e poi ci si trova immersi, sprofondati, in un mondo del tutto sconosciuto. Da lì lo sbalordimento di chi scrive, che si trova principiante dentro la foresta delle proprie parole.

Precedentemente ha affermato di aver completato la prima stesura de L’Anniversario in soli 20 giorni. Ha inoltre affermato che dopo la prima versione sapesse già che il processo di editing sarebbe stato lungo, e così è stato. Cosa le ha fatto pensare che ci sarebbe voluto molto tempo per completare l’editing e qual è l’aspetto che è stato più soggetto a modifiche?

In parte ho già risposto a questa domanda. Il processo individuale, è quello che ho descritto, e sostanzialmente rispondeva un’esigenza che sento fondamentale: evolvere. Senza evoluzione mia – personale, esistenziale, politica – non mi interessa scrivere. Se non c’è evoluzione, non c’è ragione di scomodare i lettori e chiedere di dedicarmi il loro tempo. Poi però c’è il processo di editing vero e proprio, che non si fa da solo. Sono fortunato perché ho una piccola comunità intorno che mi aiuta in questo: amici scrittori, e traduttori che mi fanno da sparring partner costantemente. Ma poi, soprattutto lavoro con l’editor che mi segue in Feltrinelli, Laura Cerutti. Mi accompagna e mi ha accompagnato a ogni metro di questo viaggio. Nel caso di L’anniversario è stato un lavoro di anni, ha cominciato a essere in dialogo – con o senza matita – a partire dalla quinta versione. Sono arrivato alla ventiduesima grazie al pungolo delle sue domande, stilistiche ed esistenziali. Sa mettere insieme il lavoro interiore con quello sulla pagina, il che è una qualità da un lato rara e dall’altro cruciale: la scrittura è il sintomo di qualcosa che dentro di noi è successo e che poi solo sulla pagina troverà la sua manifestazione materica. Il lavoro di editing è un processo di solito di qualche mese. In questo caso è stato di anni – e per sole 120 pagine! -, una condivisione profonda. E una grande enorme pazienza da parte sua…

Lei vive e insegna negli Stati Uniti. Pensa che il suo libro – il tema, la scrittura, i personaggi – avrebbe potuto essere compreso e apprezzato in quel contesto o pensa sia una storia italiana, connaturata al nostro modo di concepire la famiglia (e la letteratura)?

Quando i miei agenti (Claire Sabatié-Garat e Marco Vigevani) hanno cominciato a proporre il libro all’estero, le reazioni sono state diverse a seconda della cultura di provenienza degli interlocutori. I paesi cattolici si concentravano sullo “scandalo” del tema, dell’abbandono della famiglia. Gli altri paesi sulla potenza di una storia di liberazione e l’affermazione di un diritto. Qui mi sembra stia il nucleo tellurico di L’anniversario. Il passaggio dallo scandalo al diritto. Poco tempo prima dell’uscita del libro, parlavo con il mio fisioterapista americano del tema del libro. Provavo a raccontargli questa storia così apparentemente complessa, ma così drammaticamente comune in milioni di famiglie. Gli dicevo che il narratore lasciava la sua famiglia per sempre, che lo strappo era doloroso, difficile. Alla fine del mio discorso, Frank – come si chiama – mi guarda e sintetizza così tutta la storia: “remove yourself from the situation”. Cioè, in sostanza: sottarsi da ciò che non ti fa sentire al sicuro. Così, semplice, limpido, senza tabù. Un diritto. Se ho scritto questa storia è anche per quello, probabilmente. Sentivo che c’era l’habitat per farlo.

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