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PROGETTO EFFETTO STREGA: INTERVISTA A NADIA TERRANOVA

nadia terranova

Grazie alla collaborazione tra la Scuola del libro, Fondazione Bellonci e Biblioteche di Roma, le studentesse e gli studenti del master “Il lavoro editoriale” 2025 hanno avuto, come ogni anno, l’occasione privilegiata di leggere e di intervistare i/le dodici candidati/e del Premio Strega, e di avere un voto collettivo per decretare la cinquina.

Francesca Santoro, Cloé Simone, Aurora Svaluto Moreolo intervistano la scrittrice Nadia Terranova candidata al Premio Strega con Quello che so di te.

Spesso la verità è quella che ci raccontiamo o che ci viene raccontata, come nel caso della Mitologia Familiare nel romanzo. A volte non è possibile conoscere la realtà dei fatti a causa della distanza temporale o della mancanza di testimonianze. Della storia di Venera sappiamo con certezza solo le date d’ingresso e di uscita dal manicomio di Messina, il resto è immaginazione. A cosa si è ispirata per raccontarla?

Avevo qualcos’altro, oltre ai dati di ingresso e di uscita. Tutta la seconda parte del romanzo è improntata a un corpo a corpo con le informazioni contenute nel faldone dedicato a Venera e trovato in manicomio; in quel documento ci sono tante annotazioni relative alla sua anamnesi e alle pratiche di cura, per cui l’immaginazione non è peregrina, ma nasce paragrafo per paragrafo da quell’analisi. Il libro cambia proprio da quando io ritrovo il faldone: da quel momento in poi, sì, c’è immaginazione e intercettazione di una possibile realtà, però ci sono anche molti dati. Tra le righe si può scrivere tantissimo.

Nel libro mette più volte in risalto la mancanza di un linguaggio adatto: “Cerco una lingua che sappia stare nella contraddizione”, e poi “non ho ancora creato il dizionario per noi, per me e la bambina, e nemmeno per il noi tre che ricomprende suo padre”. Anche la mutezza di Venera è in fondo una mancanza di parole per descrivere sé stessa e il mondo. La creazione di questo libro è perciò anche il tentativo di realizzare un linguaggio più ampio, che contempli l’esistenza di contraddizioni?

Più che di un linguaggio più ampio parlerei di un linguaggio più coraggioso, non è tanto la mancanza di parole quanto la spericolatezza negli accostamenti. Sulla maternità in particolare, ma anche in altri ambiti, si tende a polarizzare un campo semantico, a privilegiarlo rispetto ad altri. Per questo libro, invece, ho cercato parole che si contraddicessero: gioia e noia, felicità infinita e infinita fatica. Questo è mettere al mondo un figlio e questo è occuparsi di un’altra creatura.

Questo è un racconto estremamente personale e intimo. Com’è stato lavorare su questo tipo di contenuto con qualcuno (l’editor e in generale la casa editrice) che non ha vissuto la sua storia?

È stato necessario, fondamentale. Quando si vanno a toccare temi intimi, più ci si avvicina al cuore dei propri fatti personali, più si tocca qualcosa di universale, come ci insegna Annie Ernaux. Solo se raccontiamo qualcosa di intimo e molto personale possiamo aspirare all’universale, ma non possiamo capirlo da soli, abbiamo bisogno che qualcuno ci confermi che, in effetti, c’è un gioco di specchi tra la tua storia e la mia. È perciò assolutamente necessario l’aiuto di qualcuno esterno alla storia.

La ricerca che ha condotto per arrivare a capire appieno il personaggio della sua bisnonna molto spesso si contraddice da sola, e la verità probabilmente è irraggiungibile. Visto che non sappiamo realmente com’è andata, come categorizzerebbe il suo libro? Come romanzo? Come non-fiction?

Abbiamo parlato di una lingua della contraddizione e quindi il libro è un libro della contraddizione. Perché dobbiamo categorizzarlo? Ci sono romanzi di non-fiction e ci sono romanzi di fiction. Direi che romanzo è una parola talmente enorme, gigantesca nella storia della letteratura, che può andare da “Lessico Famigliare” all’“Odissea”, che per me un libro letterario è sempre un romanzo.

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