Grazie alla collaborazione tra la Scuola del libro, Fondazione Bellonci e Biblioteche di Roma, le studentesse e gli studenti del master Il lavoro editoriale 2025 hanno avuto, come ogni anno, l’occasione privilegiata di leggere e di intervistare i/le dodici candidati/e del Premio Strega, e di avere un voto collettivo per decretare la cinquina.
Chiara Anastasi e Natasha Baldassarre intervistano lo scrittore Valerio Aiolli candidato al Premio Strega con Portofino blues.
Portofino blues è un libro dal genere non immediatamente identificabile. Potrebbe essere un giallo, un thriller, un noir, ma è una cronaca di fatti veri, forse anche un reportage. Si può dunque inquadrare come letteratura non fiction?
Forse la persona meno indicata a cui fare una domanda del genere è proprio l’autore. Credo di conoscere abbastanza bene da dentro la natura di ciò che ho scritto, ma definirla da fuori, al fine di inserirla in una specifica casella editoriale, mi risulta abbastanza difficile. Un’importante catena di librerie, evidentemente colpita dalla parola Portofino, l’aveva catalogato come narrativa di viaggio, e nelle prime settimane gli amici mi mandavano messaggi perplessi quando per scovarlo dovevano spingersi fino alle pendici degli scaffali delle guide turistiche. Gli errori però a volte sono rivelatori, e se si pensa alla lettura come a una qualche specie di viaggio, credo che in questo libro se ne tocchino di luoghi, esteriori e interiori. Anche se il punto di partenza è una serie di fatti realmente accaduti, e i nomi sono rimasti gli stessi che nella realtà, quel “non fiction” mi sembra un po’ troppo assertivo. Anche perché la letteratura, di per sé, è fiction, anche quando sembra “dire” la verità.
Come è arrivato alla formulazione di un titolo del libro così evocativo (per tutte le sfaccettature che la parola blues porta con sé)?
Mentre scrivevo, a un certo punto mi sono accorto che oltre a una struttura di tipo narrativo, stavo seguendo un andamento musicale. C’era un’intro che anticipava i temi poi presenti nella storia, un doppio registro di frasi, o accordi, che si alternavano, alcuni special che arrivavano a portare fuori banda per un po’ la narrazione, la presenza di materiali del passato che irrompono nel presente, e che io sentivo come note in apparenza dissonanti che si fondevano nel procedere armonico. Infine, una coda che sembrava quasi sfumare in un ad libitum, salvo poi rialzare il volume in un colpo conclusivo. Portofino era il centro di questa storia cupa, amara, ritmata. Il blues è la musica che storicamente esprime il dolore, la perdita della speranza, la malinconia. Portofino blues mi sembrava il titolo che, con economia di mezzi, raccontasse tutto questo.
Nonostante un certo distacco nel raccontare i fatti narrati, la sua presenza e i suoi giudizi sono individuabili nel testo, più esplicitamente nei piccoli ‘disclaimer’ e nei capitoli in cui interviene come autore. Cos’è che l’ha avvicinata a questa vicenda e al personaggio della contessa a tal punto da intraprendere l’impegno di quello che è diventato Portofino blues?

Tre cose, fondamentalmente. La sfida di riuscire a raccontare con gli strumenti della letteratura una storia iper-raccontata dal punto di vista giornalistico. La consapevolezza che, narrando la vita dei vari personaggi presenti nella vicenda, avrei avuto l’opportunità di scandagliare pezzi del passato del nostro paese ancora molto presenti nella nostra realtà tangibile o immaginaria (il miracolo economico, il jet set, i successi sportivi, Tangentopoli, ecc.). L’opportunità di spingermi al fondo della mente e del cuore di personaggi molto diversi da me (in particolare la contessa), con la speranza di trovare qualche barlume di senso (o di non-senso) mai intravisto prima.
Le fonti consultate per scrivere il libro sono numerose e di diverso tipo. Come si è svolto il processo di verifica e revisione delle informazioni storiche? È riuscito ad avere delle fonti dirette oltre a quelle documentali, parlando con alcuni dei protagonisti delle vicende ancora in vita, e/o a visitare il luogo principale in cui si svolgono i fatti, Villa Altachiara?
Per quanto riguarda la vicenda avvenuta a Villa Altachiara e culminata con la morte di Francesca Vacca Agusta, nonché per i movimenti delle settimane e mesi a seguire, non esiste una ricostruzione ufficiale dei fatti in quanto non è mai stato svolto un processo. Ci sono quindi le fonti giornalistiche, che ho incrociato fino a ottenere una versione dei fatti che in qualche modo mi sembrasse coerente. Riguardo invece a tutto ciò che succede decenni, anni o mesi prima, mi sono rifatto a libri, interviste o testimonianze dirette di alcune persone informate sui fatti. Non ho potuto visitare l’interno di Villa Altachiara, ma sono stato in grado di reperire fotografie e filmati che la mostrano.
Gli eventi raccontati coprono un periodo di tempo piuttosto lungo, e in ogni capitolo ci sono frammenti di storia anche cronologicamente molto distanti. La narrazione si muove dalle origini della famiglia Agusta nel primo Novecento fino alle dispute attorno all’eredità che si estendono agli anni Duemila e al caso giudiziario sulla morte della contessa. Com’è riuscito a costruire una struttura narrativa così complessa, e a gestire la quantità di punti di vista da cui scrivere, considerando le personalità e stati psicologici diversissimi tra loro?
La ricerca di una struttura che fosse capace di contenere tutto il materiale raccolto (e immaginato), e allo stesso tempo di creare e mantenere una tensione narrativa, è stata una delle questioni principali da risolvere durante la stesura del libro. Doveva esserci una specie di ticchettio di orologio che partisse dalla mattina e portasse alla sera di quel lunedì 8 gennaio 2001. Quell’orologio era Villa Altachiara, e i vari personaggi che vi abitavano si sarebbero passati il testimone via via che si svegliavano, in un crescendo di intimità nei confronti di Francesca Vacca Agusta, partendo quindi dalla cameriera Teresa, per passare all’amica Susanna, al compagno Tirso, all’ex (ma mai del tutto ex) Maurizio, a lei stessa. Alcuni momenti sarebbero stati raccontati da più punti di vista, in modo da dare maggiori sfaccettature alla narrazione. Naturalmente ciascuno dei personaggi avrebbe portato in dote il proprio vissuto, da distribuire a seconda dei ritmi propri di ogni fase affabulatoria. Spesso poi, a seconda dei momenti e delle assonanze, sarebbero entrati in scena altri vissuti, altri passati, altre storie, aventi a che fare in modo diretto (quelle degli Agusta) o indiretto (le tante micro vicende di canzoni, film, sport, costume che si dipanano qua e là) con la vicenda principale. Una volta individuata questa struttura – fuori-dentro, i personaggi che si alternano sul proscenio – ho cercato di sintonizzarmi con una musica interiore che mi permettesse di affrontare i vari punti di vista e le diverse vicende con una scrittura allo stesso tempo duttile, capace cioè di adattarsi alle diverse contingenze e personalità, e unitaria, in modo da non allontanarmi mai troppo da un modo di scrivere che tenesse “tutto insieme”; salvo eccezioni necessarie, come nel caso del “Rocky Picture Show”. Il resto, per così dire, è venuto da sé.