di Simonetta Gallucci (allieva del master “Il lavoro editoriale” 2025).
Lettere minuscole (TerraRossa Edizioni, 2025) è un romanzo sull’esperienza del dolore e sulle possibilità della scrittura. La narrazione procede per frammenti non disposti in ordine cronologico, che sovrappongono passato e presente, seguendo i pensieri non lineari di una giovane donna in fuga dalla trappola di una mente che tutto pone in discussione, in un processo spietato di autoanalisi.
Con una prosa sperimentale, capace di trasmettere il senso di confusione e instabilità della protagonista, si ripercorrono alcuni momenti cruciali della sua vita, alternati a riflessioni: dal rapporto con un corpo oggetto del desiderio ai tatuaggi fatti per cancellarsi, dalla fine della relazione con elle all’inizio di quella con emme, che la farà innamorare ancora, e ancora cadere. Immagini, ricordi e sensazioni diventano così tasselli di un mosaico che tenta di ordinare il caos interiore, per riuscire a compiere un “atto magico”: salvarsi.
Ilaria Grando nel 2022 ha frequentato Scrivere un libro, master di scrittura della Scuola del libro.
C’è una correlazione tra il titolo del romanzo e il fatto che i personaggi maschili vengano identificati con l’iniziale in lettere minuscole, appunto?
Lettere minuscole è il titolo di uno dei frammenti del libro che è in posizione centrale, pubblicato tempo fa su una rivista letteraria. L’idea dei nomi maschili con l’iniziale minuscola è venuta dopo, ma ho trovato interessante come tutto si parlasse.
E poi sì, volevo che gli uomini sparissero nel testo, perché sono alcuni dei responsabili di come si sente la protagonista: vanno a sminuirla od oggettificarla, e fanno parte di un grande collettivo che purtroppo affligge ancora oggi tutte noi. Con la traslitterazione dell’iniziale minuscola si perdono nel testo, si toglie loro potere.
Il potere è tutto nella voce, nell’io narrante, nella protagonista.
I nomi dei personaggi femminili, invece, sono tutti con la maiuscola.
Sì, sono figure salvifiche per la protagonista, supporto e sostegno.
La mia definizione preferita è quella che le dice il papà: «Donna sii Donna», come per dire «sii forte». È questa Donna la figura a cui la protagonista aspira, difficile da definire perché porta con sé costruzioni messe da altri, sguardi esterni o autoimposti. Lei fino all’ultimo non sa se è una Donna, forse lo è nella decisione finale che prende; una decisione ultima, su cui non c’è giudizio morale. Volevo che finisse così per lanciare un messaggio: basta veramente poco per cambiare il destino di una persona.
Penso ci sia da riflettere, soprattutto in questo periodo storico, su quanta violenza viene fatta sulle donne.
La protagonista considera i tatuaggi un modo di «verbalizzare per assicurarsi»; qual è la loro valenza simbolica all’interno del romanzo? E questo «verbalizzare per assicurarsi» vale anche per la scrittura?
La protagonista usa i tatuaggi per cancellarsi, per togliere pelle, per fare delle ferite qualcos’altro e rinascere in un modo diverso.
E lo stesso vale per la scrittura: è un percorso, un modo per lasciare andare parti di te che magari non vuoi neanche più vicine, e processarle; anche sulla pagina, quindi, per rinascere in modo diverso.
Lettere minuscole è un romanzo per frammenti. Questo perché, come dice la protagonista nelle prime pagine, «la memoria è un casino»?
A volte, quando si sta male, la memoria fa un po’ i giochi che vuole, e nel libro questo si traduce in una serie di frammenti che si parlano tra loro, ma non corrispondono a un percorso cronologico.
La struttura è in parte dovuta a come mi sono trovata a lavorare, e in parte alla tematica del libro. Carola Susani, docente del master, una volta ha detto che quello che scriviamo dipende dal tipo di vita che facciamo; il lavoro mi impegnava molto, quindi scrivevo frammenti, nei ritagli di tempo, e questo si è riflesso nel libro.

Quindi il romanzo è nato durante il master di scrittura?
L’ho completato prima della fine del primo anno. Dopo, c’è stato un grande lavoro di riscrittura, anche per la forma utilizzata, che gioca con rime, rimandi e ritmi; se c’è una sbavatura, stona e si sente.
Ho un modo di fare editing ossessivo: leggo il testo ad alta voce e se inciampo, o se cambio una parola, ricomincio. È un lavoro lungo, che ho fatto prevalentemente da sola; poi il libro è stato letto da Carola e da una mia amica. Quando è arrivato all’editore Giovanni Turi di TerraRossa era già a uno stadio avanzato.
La tua scrittura in Lettere minuscole è molto musicale. Come hai ottenuto questo effetto?
La musicalità penso sia innata. Ho vissuto in Inghilterra per quattro anni, e avevo perso l’italiano, non mi veniva spontaneo usarlo nella scrittura; quando sono tornata in Italia ho riappreso la lingua, che si è riversata poi in questo libro. A volte faccio un uso un po’ strano anche della punteggiatura, che magari ricorda l’inglese.
O delle parentesi tonde.
Scrivendo mi sono accorta che mi piaceva usare questo segno grafico, perché abbassavo il tono della voce quando leggevo le parole tra parentesi. Nei testi scritti si tende a non guardarle con attenzione, mentre io volevo mettere tra parentesi parole che rafforzassero la frase o addirittura dessero senso all’intero paragrafo. Penso alla matematica: le parentesi possono cambiare un risultato. È stato difficile calibrarle, perché non è semplice capire cosa può andare tra parentesi e che effetto ha sulla lettura del testo.
Hai avuto dei riferimenti letterari nella stesura di questo libro?
La prima grande fonte di ispirazione è Anaïs Nin, Diario Vol. 5: una scrittura lirica ma puntuale, vulnerabile sulla pagina in modo così vero, così disarmante. Ho letto molto anche Colette, La vagabonda: parla di una sensazione propria dell’essere donna, che è uno dei temi centrali del mio testo, la sviscera in modo diretto, a volte crudele. Passando alle contemporanee, Anne Carson per La bellezza del marito, Melissa Febos per Girlhood, che porta alle estreme conseguenze la forma del personal essai, Annie Ernaux per Passione semplice e Chelsea Hodson per Stanotte sono un’altra.
Tutte storie femminili, ma è la precisione del linguaggio che a me piace. A volte sono stanca anche delle storie, preferisco essere trafitta da una frase.
Citando il tuo romanzo: «Mi hanno detto che per scrivere delle cose bisogna starci dentro». È così?
Ho scritto questo libro in un momento difficile, e l’ho scritto così perché sono stata dentro e ho attraversato il dolore. E il dolore per fortuna si è tradotto in arte. Una volta fuori l’ho dato agli altri, con i rischi che comporta.
A volte vengo mal interpretata quando dico che ho scritto per urgenza, perché non avevo nessun’altra risposta a quello che mi stava succedendo, ma dietro c’è un pensiero, ed è curioso vedere come il libro parli alle persone. Non era scontato.
Chiudi scrivendo che i libri vanno lasciati senza guinzaglio; a chi vorresti che arrivasse il tuo?
A chi ne ha bisogno.
Mi auguro che qualcuno lo possa usare per attraversare il suo dolore.