Come sopravvive una casa editrice indipendente, ideata e gestita da poche persone, in un mondo di giganti editoriali?
PB: Ci sono infiniti modi per sopravvivere, come dimostrano la varietà e la qualità delle case editrici indipendenti in Italia, un mondo molto attivo e fertile. L’editoria è relativamente facile: non ha barriere di ingresso economicamente proibitive e non servono (per forza) lauree complicate o post dottorati per cominciare. Nella maggior parte dei casi bastano poche persone (o anche una sola) – purché appassionate e con qualche competenza e buona idea – per farsi trovare da un numero sufficiente di lettori.
Che cosa offrite ai lettori di diverso dalle altre case editrici? Come siete riusciti a ritagliarvi un vostro personalissimo spazio nel mondo dell’editoria italiana?
PB: Nessuno sa fare libri alti e stretti bene come noi.
MC: Dato che l’emisfero nord del pianeta aveva una bandierina «Iperborea» piantata su, noi abbiamo deciso di puntare dritti al Sud, iniziando nel 2011 una casa editrice, la prima in Italia, dedicata interamente alla letteratura latinoamericana (è sempre sorprendente e interessante quando un’idea in fondo semplice scopri che nessuno l’aveva messa in pratica prima). Poi col tempo abbiamo allargato i nostri orizzonti, e a metà di questa finora decennale esperienza, nel 2015, abbiamo aperto BIG SUR, accogliendo la proposta fatta da due editor con cui ho collaborato tanti anni in un’altra casa editrice, Dario Matrone e Martina Testa, di fare una collana di letteratura angloamericana. Anche cambiare idea, mutare direzione o aggiungere nuove tappe al tuo viaggio (come quando Iperborea ha inaugurato i Miniborei, collana di libri per bambini, o il favoloso progetto The Passenger) è parte del fermento editoriale: l’importante è mantenere una coerenza nell’approccio, nel tono, nella proposta. Si potrebbe pensare che aggiungere altri ingredienti possa annacquare la tua bevanda: ma in fondo non è così che sono nati i migliori cocktail? Perfino quelli che per definizione sembravano «sbagliati» a volte hanno avuto enorme successo.
Vi occupate, tra le altre cose, di festival (La grande invasione e I Boreali), libri-magazine (The Passenger, Iperborea), corsi di scrittura ed editoria (la Scuola del libro) e siete soci di librerie (Libreria Verso a Milano e Libreria Trastevere a Roma). Quanto è importante allargare l’offerta culturale e ampliare i propri orizzonti imprenditoriali?
PB: A volte queste iniziative nascono da precise scelte strategiche, a volte per invidia (Marco aveva una libreria e io no), altre ancora per caso, ma di solito una nuova impresa culturale parte quando un lettore affamato non trova quello che cerca e decide di procacciarselo da solo, gettando il cuore oltre l’ostacolo. Così è nata Iperborea, fondata da mia madre perché non trovava in libreria autori scandinavi che aveva molto amato, e così è nata la serie The Passenger. E credo che questo valga per il novanta per cento delle collane e delle case editrici.
Quale consiglio dareste a chi nutre il desiderio di aprire una casa editrice o lavorare per una casa editrice?
PB: Iscriversi a questo corso.
MC: E, subito dopo, perseverare nel progetto che si vuole portare avanti. Una delle tante cose che diciamo da anni in questo corso (e che Pietro, poverino, non ce la fa più a sentirmi dire) è che questo mestiere è uno strano mix di esperienze: molti si avvicinano all’editoria perché sono lettori appassionati, ma questo fattore se da una parte è necessario non è certo sufficiente. L’editore è una bestia mitologica, metà intellettuale e metà imprenditore, uno dei due aspetti non potrebbe bastare senza l’altro. Quando incontriamo qualcuno che ci chiede che mestiere facciamo, alla nostra risposta mostra invidia e meraviglia dicendo «Ah beato te, quindi leggi tutto il giorno!» e non sa che invece, per poterci considerare meritevoli di quella mezz’oretta di lettura sottratta con le unghie e con i denti alle altre incombenze, ci siamo dovuti occupare per tutta la giornata di budget, contratti, tirature, distribuzione, e una sequela di altre attività che non sono quasi mai stampate su incunaboli di qualche secolo addietro ma ci si manifestano nella forma di caratteri luminosi su un foglio excel che hanno contribuito ad abbattere le nostre diottrie. Eppure, ci sottoponiamo volentieri a queste piccole torture quotidiane proprio perché servono a costruire, o portare avanti, un progetto culturale che è quello che in fin dei conti alimenta la nostra passione. C’è una storia che ci piace, e faremmo di tutto per farla arrivare a quante più persone possibile.
Come vi immaginate il mercato editoriale tra venti o trent’anni?
PB: In questo momento faccio molta fatica a immaginare come sarà tra venti mesi.
MC: Sarà senz’altro un po’ più pacato perché dopo che noi due avremo aperto ulteriori case editrici, collane, librerie e chissà cos’altro, saremo finalmente dei venerati maestri in pensione (dopo il passaggio alla categoria precedente, quella attuale, che più ci rappresenta), e potremo leggere tutti i libri accumulati proprio in vista di quel traguardo. Inclusi i libri pubblicati dalle case editrici fondate dagli allievi dei nostri corsi.
Perché pensate sia utile frequentare un corso di editoria? E perché proprio il vostro?
PB: A quanto ne so, non ci sono in giro altri corsi “concentrati” che cercano di raccontare e trasmettere a tutto tondo la bellezza e la difficoltà di questo mestiere da chi le vive ogni giorno sulla propria pelle, quindi con un piglio decisamente pratico. E poi io mi iscriverei a qualunque corso tenuto da Marco Cassini.