Nei romanzi, nei racconti, nei film, nelle fiabe ci sono personaggi caratterizzati soprattutto dall’andare, altri che invece rivelano se stessi attraverso il ritornare. Come se nell’esperienza del ritorno – un movimento “a ritroso” raramente fluido, la maggior parte delle volte complesso se non tortuoso – si generasse una conoscenza delle cose più autentica, uno sguardo finalmente radicale sul mondo. Attraverso le storie di un partigiano, di un giovane ufficiale asburgico, di un professore di chimica, di un muratore toscano, di un gatto nonché di un pinguino antartico – tutti personaggi che, come nella canzone di Bruno Lauzi, si sentono soli con la loro libertà – proveremo a individuare alcuni connotati di qualcosa – avere la sensazione di passare la propria vita a non fare altro che ritornare – che non è una “semplice” circostanza ma un vero e proprio stato d’animo.
1. Il ritorno non è un fatto soltanto geografico o topologico, è anche un’attitudine (persino una mania) e uno stato d’animo. Qualcosa che prende forma sul volto di chi ritorna, un modo in cui si organizzano i lineamenti e lo sguardo. Per cominciare questo itinerario nelle narrazioni dei ritorni, osserviamo da vicino, nella letteratura e nel cinema, il primo piano di chi ritorna.
2. Immagine del ritorno è il personaggio di Ulisse. Dopo dieci anni passati in guerra, i dieci successivi trascorrono nel tentativo – contrastato e contraddittorio – di ritornare a casa. Ma come sono fatti gli ulissidi contemporanei? A quale Itaca ritornano? E ad attenderli c’è qualcuno di simile a Penelope e a Telemaco? Vale ancora, per loro – per noi -, un sentimento analogo alla nostalgia, a quel “dolore del ritorno” che connota profondamente l’eroe omerico?
3. Il ritorno, abbiamo detto, non riguarda soltanto o esclusivamente lo spazio, è semmai un modo di stare al mondo. Di prospettiva. Di “stile”. Attraverso due racconti brevi di Franz Kafka, ragioniamo sulla forma che hanno le frasi: prima in un racconto fondato sull’andare, poi in un racconto che descrive un ritorno. Delle frasi consideriamo il passo, l’andatura, le pause, gli allunghi, le insenature: lo stile, appunto.
4. Nelle narrazioni, ritornare è il momento in cui ci si rivela a se stessi. Durante il ritorno, il personaggio comprende davvero chi è. Scopre, ritornando, di essere fortuito, di essere disperso, strutturalmente straniero: addirittura – e non solo non costituisce un male ma è una vera e propria liberazione – irrimediabilmente superfluo.
5. C’è un’esperienza con la quale prima o poi abbiamo tutti a che fare. Un’esperienza descrivibile non semplicemente come il “non ritornare”, quanto come il “continuare a non ritornare”. Il lutto, per gli esseri umani, è questo: la continua percezione di qualcuno che non ritorna. Che non fa altro che non ritornare. Ci sono narrazioni che servono a questo: a dilatare e a far riverberare il non ritorno: non è detto che in questo modo si riesca a sopportarlo, si prova però a comprenderlo e a rispettarlo.
Quindi, per riepilogare:
Cosa: | Voce del verbo ritornare |
Quando: | sabato 23 e domenica 24 maggio 2020 |
Dove: | Via della Polveriera 14, Roma |
Quanto: | 290 euro |
Con chi: | Giorgio Vasta |