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EFFETTO STREGA – Intervista a Fabio Bacà (Nova – Adelphi)

intervista a Fabio Bacà

A cura di Eva De Vecchis, Valentina Provedel Furlani e Irene Rosati

Davide Ricci è un mite neurochirurgo che conduce una vita tranquilla a Lucca. Assieme alla moglie Barbara, logopedista vegana, e il figlio Tommaso, adolescente appassionato di astronomia alle prese con la sua prima cotta, forma una famiglia all’apparenza perfetta. Tutte le mattine Davide pensa alla morte, la sua ma non solo, come possibile evasione da tutte le situazioni spiacevoli che è costretto a subire: le intimidazioni del vicino di casa Massimo Lenci, il carattere burbero del dottor Martinelli, primario del reparto, la minaccia di un inseguimento in macchina da parte di uno sconosciuto anni prima. Un giorno qualunque, Barbara viene importunata da un ubriaco che Davide è troppo timoroso per fermare. Ad intervenire è invece Diego, monaco zen con cui Davide instaurerà un rapporto discepolo/allievo alla ricerca di una nuova consapevolezza di sé, di un koan capace di rivelargli la natura più oscura e latente dell’essere umano. E se dapprima tale percorso sembra condurlo a un ritrovato rispetto di sé, a lungo andare sfuggirà al suo controllo e porterà a conseguenze tragiche e imprevedibili. Perché il cervello è un organo tanto raffinato quanto brutale nei suoi impulsi più latenti.

In Nova come in Benevolenza cosmica (Adelphi, 2019) lei affronta personaggi all’apparenza perfetti, che conducono vite invidiabili. Poi però qualcosa si spezza in maniera repentina. In questo romanzo lei parla di un lato spaventoso della violenza, e cioè la sua mancanza di mediazione, la sua apparente attitudine a eliminare i problemi in maniera rapida e definitiva. Cosa la affascina di questo aspetto e perché ha deciso di parlarne?

Per le caratteristiche della mia prosa, voglio che parli gente colta. Questo perché credo che a questo punto della mia vita di scrittore mi sia più facile esprimere concetti “intelligenti” se coloro che li esprimono sono persone intelligenti. Spero di arrivare un giorno a un livello di bravura tale che non avrò bisogno che i miei soggetti siano acculturati per esprimere delle teorie o delle tesi, o dei semplici dialoghi che siano particolarmente brillanti. Fino a questo momento preferisco andare sul sicuro, diciamo che è una comfort zone. La violenza mi interessa da quando sono giovane. Sebbene io sia una persona non violenta, mi sono sempre informato, ho letto dei libri sulle pazzesche potenzialità del cervello e sul ruolo della violenza che rappresenta un mezzo potentissimo per far esprimere l’essere umano, e ho sempre pensato che prima o poi avrei scritto qualcosa sull’argomento. Poi l’occasione mi è stata data da alcuni film e libri che mi hanno fornito uno spunto definitivo. Nova infatti è un omaggio più o meno grato a Fight Club, il film che mi ha cambiato la vita. L’ho visto a ventisette anni, avevo bisogno di una svolta maschilista perché venivo da un trauma sentimentale, avevo bisogno di quel film. Ogni tanto entra nella tua vita un’opera d’arte, un film, una persona magari che ti dà una visione diversa delle cose: Fight Club lo è stata, l’ho visto nel ’99, poi ho aspettato quasi vent’anni per scrivere qualcosa.

Il protagonista Davide Ricci è un personaggio complesso, che nel romanzo intraprende un percorso di formazione alla scoperta delle filosofie orientali e di impulsi poco conosciuti del cervello. Come ha portato avanti la ricerca di informazioni per la costruzione del personaggio?

In maniera parallela, veramente binaria, con uno sfasamento temporale non da poco, perché ho cominciato a interessarmi di meditazione di ogni tipo, dallo zen alla trascendentale a quella di Osho, facendo dei corsi, viaggiando molto. La meditazione e lo zen mi sono sempre piaciuti, l’ho praticati, ho letto parecchi libri, ho visitato monasteri. E poi quattro-cinque anni fa ho integrato, leggendo libri divulgativi di neuroscienza e mi sono appassionato immensamente. Mi vengono in mente quelli di Oliver Sacks, come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello oppure Il cervello infinito di Norman Doidge, un libro davvero bellissimo che tutti dovrebbero leggere perché sì parla di neuroscienze, ma in modo divulgativo, capace di far vedere quali potenzialità pazzesche abbia il cervello. Quando poi è stato il momento di capire che cosa volevo facesse il mio protagonista, ho deciso di parlare di un tema che mi ha così tanto appassionato. Pensate che la prima stesura di Nova è arrivata a quattrocento pagine perché era piena di intermezzi di aneddotica legati alla neuroscienza, tanto che l’editor di Adelphi mi ha detto: “O facciamo un saggio o facciamo un romanzo, scegli tu”. Ovviamente ho scelto il romanzo.

A un certo punto del testo Davide si lascia andare alla violenza. C’è però un altro personaggio che si muove in modo simile all’interno della narrazione e che a un certo punto esplode. Si tratta del figlio Tommaso che, al contrario del padre, sembra scoprire da solo la parte più istintiva dell’uomo, quella fatta anche di pericoli e “colpi di testa”. Possiamo dire quindi che il personaggio di Tommaso sia quello che più di tutti rappresenta il coraggio di vivere senza nascondersi, come invece fa il padre? Un compromesso tra istinto e controllo, la consapevolezza di dover lottare, ogni tanto, per le persone che si amano?

Giusto. Il percorso di Davide e quello di Tommaso sono speculari, ma Davide ha decenni e decenni di studi, di civilizzazione, di bon ton, di maniere che Tommaso ancora non ha, o quantomeno non le ha così approfondite, così introiettate. E quindi quello che succede nel momento in cui c’è da sfoderare gli istinti, è che Tommaso lo fa senza pensarci. La scena finale, quella in cui lui aggredisce Giovanni, è la riproposizione della scena in cui suo padre non aggredisce l’ubriaco, perché ha paura, perché non crede che le cose si possano risolvere menando le mani. Però Tommaso questi problemi non se li fa, ed è uno dei momenti più oscuri, più fraintesi, più obnubilati del romanzo, ma per me uno dei più importanti, loro si guardano per un attimo e Tommaso agisce nell’unico modo che ritiene giusto in quel momento: rischia la vita per salvare qualcuno che ama. Per concludere, io provo ad avere uno sguardo da entomologo, cerco di vedere quale sia il comportamento più adatto ad ogni situazione, perché è un discorso profondamente personale e, tenendo conto dei minimi criteri di ragionevolezza, giustizia e saper vivere, io parteggio per Tommaso.

All’interno della narrazione lei porta avanti un crescendo di avvenimenti che infettano la pace della trama, fatti quotidiani che si rivelano però fondamentali per la conclusione del romanzo e che esplodono nella parte finale, stravolgendone l’equilibrio. Quanto è stato complicato portare avanti questa tensione, questa calma che si agita sempre di più fino a trasformarsi in rivelazioni che cambiano l’esito della vicenda? E quanto ha influito il lavoro di editing?

Non sono sicuro di poter rispondere bene a questa domanda, come a qualunque altra domanda che implica il voler analizzare i sottintesi inconsci dello scrivere, quelli che derivano da tanti e tanti anni di letture. Mi sono semplicemente limitato a inserire alcuni piccoli dettagli che facessero capire che le cose stavano precipitando, una forma d’angoscia che fa parte della vita, dove ci sono momenti brutti e momenti belli. A una certa età si capisce che certe piccole angosce esistono e se sei un narratore riesci a ricordarti le sensazioni che provavi e a trasferirle sulla carta, trasponendole a carico dei tuoi personaggi. Sull’editing mi vanto di una cosa, anche se non amo vantarmi, però di questa posso: Adelphi non ha toccato quasi nulla della struttura del romanzo, mai che mi abbia detto “sposta questo capitolo qui” o “in questo enfatizza il discorso sulla paura”. Quello che abbiamo ritoccato con Adelphi è semplicemente la mia lingua un po’ barocca, per il resto sia il primo che il secondo romanzo sono rimasti pressoché uguali agli originali.

Quali sono i riferimenti letterari, e più in generale culturali, a cui si è ispirato per la costruzione del romanzo?

Credo che gli anni decisivi nella formazione di uno scrittore siano dai quindici ai trenta, perché incontra i romanzi fondamentali della sua vita. I miei sono stati tanti, ma in particolare è stato fondamentale il binomio American Psycho letto nel ‘98 e Fight Club visto nel ’99. American Psycho di Bret Easton Ellis, uscito nei primi anni Novanta (in Italia mi sembra nel ‘91), e Fight Club, uscito nel ’99, per me aprono e chiudono il decennio finale del ventesimo secolo, sono stati un libro e un film indispensabili, opere meravigliose, che volevo omaggiare. Se ci pensate bene in American Psycho c’è il tema della follia, che compare tangenzialmente nel personaggio di Giovanni (forse anche lo stesso Diego non ci stia del tutto con la testa), e in Fight Club c’è il tema della violenza, quella psichica, e il discorso sulla natura umana. Per me sono stati libri fondamentali sia nello stile sia nella sceneggiatura, mi hanno ispirato moltissimo. Poi ci sono molti altri libri che hanno contribuito a creare il mio personale immaginario, quelli sulla violenza sono tanti, mi viene in mente ad esempio Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. Gli anni Novanta sono stati anni molto duri ma American Psycho li apre bene e Fight Club li chiude al meglio.

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