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«Da farsi, da farsi, da farsi»: Natalia Ginzburg in casa editrice

Tutti si fidavano del suo parere tanto che divenne presto indispensabile per molti, soprattutto Calvino e Pavese

A cura di Manuela Altruda, allieva del master Il lavoro editoriale, 2021

«Caro Massimo, la presente per accreditarti la tua collega di direzione, Natalia. Essa è autorizzata a fare in tutto e per tutto le tue veci quando tu non ci sei, ma anche a strapazzarti se esageri nel passare mattinate a casa componendo. […] Ha l’incarico segreto di indurvi a essere meno piantini, a rispondere subito picche al 90% delle proposte senza nemmeno segnalarle al G.d.S., e insomma a orientare il nerbo del vostro lavoro soprattutto nel campo tecnico della lavorazione. Deve infatti, d’accordo con te, creare una rete di buoni umanisti esterni ai quali affidare revisioni. Tra voi due sapete tutte le lingue e potete giudicare […]»

Cesare Pavese, Officina Einaudi – Lettere editoriali 1940-1950, Einaudi 2008

Con queste parole, il 10 novembre del 1945, Cesare Pavese spiegò a Massimo Mila il nuovo ruolo che Natalia Ginzburg, nata Levi, avrebbe assunto da quel momento in poi nella sede torinese di Einaudi: un ruolo di coordinamento e direzione che spiega quanto ormai la vedova del “leoncino” fosse indispensabile e insostituibile nella sede di via Biancamano.

La collaborazione di Natalia con la casa editrice era cominciata però già molto prima. Nel 1937 Giulio Einaudi e Leone Ginzburg le avevano proposto di tradurre dal francese À la recherche du temps perdu di Marcel Proust e lei, forse un po’ incosciente e un po’ inconsapevole, aveva accettato senza pensarci troppo. «Era folle propormelo e folle fu da parte mia accettare», così scrive la stessa autrice nella prefazione alla traduzione rivista e aggiornata dell’opera, uscita nel 1990 nella collana «Scrittori tradotti da scrittori». Natalia, in fondo, aveva accolto quell’incarico perché le dava la possibilità di entrare nel vivo dell’opera di quell’autore francese che sin da bambina aveva mitizzato. In casa Levi, infatti, leggere Proust significava aggiudicarsi un posto tra i colti della famiglia e lo si percepisce bene nelle pagine di Lessico famigliare (1963): la protagonista e voce narrante non lo ha ancora letto, ma ascolta affascinata sua sorella Paola e sua madre che ne parlano estasiate. Così, poco più che ventenne, Natalia firmò il suo primo contratto come traduttrice, e si impegnava a consegnare il lavoro sull’intera Recherche entro dieci anni. Non ricevette alcun tipo di anticipo e questo in qualche modo, come afferma lei stessa nella prefazione già citata, la faceva sentire libera di abbandonare quell’impresa in qualunque momento. Fa sorridere pensare che per il suo matrimonio con Leone Ginzburg, celebratosi il 12 febbraio del ’38, Santorre Debenedetti le regalò «i sedici volumi della Recherche in un’edizione del ’29, in una splendida rilegatura rosso e oro». Lei però non osava toccare quel gioiello editoriale e così lavorava su una copia «squinternata» di Gallimard. Quando mostrò a Leone le prime pagine di Du côté de chez Swann, il risultato fu giudicato disastroso. Imparò sin da subito che tradurre era un lavoro di precisione e, per usare le sue stesse parole, basato sulla «minuziosità della formica e l’impeto del cavallo». D’altronde pur non avendo quella predisposizione alla traduzione come suo marito, era innamorata di quelle pagine e per molti anni non riuscì a leggere altro.

«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario: anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».

Natalia Ginzburg, Nota del traduttore, in La strada di Swann, Einaudi 1990

Dopo quattro anni passati al confino, a Pizzoli, Leone morì nel ’44 torturato e pestato nel carcere romano di Regina Coeli. Natalia lasciò tutte le sue carte nel paesino abruzzese abbandonando, almeno momentaneamente, l’idea di terminare quel lavoro che tanto le ricordava l’amato marito. Tornò a Pizzoli a riprendere quelle carte solo dopo la fine della guerra, nemmeno troppo speranzosa di ritrovarle.

Nell’ottobre di quello stesso anno si trasferì a Roma fiduciosa che quella casa editrice che doveva molto a Leone le desse lavoro. Giulio Einaudi era in Svizzera ma l’attività editoriale aveva ripreso a pieno regime dopo la liberazione della capitale. L’autrice racconta così di quei giorni:

«Pensavo che, se avessi chiesto di lavorare in quella casa editrice, m’avrebbero dato lavoro; e tuttavia di chiederlo mi pesava perché pensavo che mi sarebbe stato dato un posto per compassione, essendo io vedova, e con figli da mantenere; avrei voluto che qualcuno mi desse un posto senza conoscermi e per mie competenze. Il male era che io competenze non ne avevo».

Natalia Ginzburg, La pigrizia, in Un’assenza – Racconti, memorie, cronache, Einaudi 2016

Grazie all’amico Carlo Muscetta, venne assunta come redattrice: rivedeva manoscritti e traduzioni, correggeva accenti, tempi verbali e scovava refusi, scoprendo presto che «perché e affinché avevano l’accento acuto, ma tè caffè e lacchè avevano l’accento grave».

Il fatto che dopo poco meno di un anno, nell’ottobre del ’45, Natalia venisse trasferita a Torino con lo scopo di aiutare Massimo Mila nella direzione della sede piemontese, dimostra che questa donna forse non era poi così pigra come era solita definirsi. Ma soprattutto dimostra che il suo timore più grande, quello di essere assunta per compassione e perché vedova di Leone, era del tutto infondato: Natalia fu un’ottima redattrice e, citando Giulio Einaudi, una lettrice formidabile. Si occupava principalmente di narrativa italiana – ma non disdegnava quella straniera – prima affiancando Cesare Pavese, poi in autonomia quando quest’ultimo cominciò a lavorare alla sua «Collana viola».

La missione principale di Natalia era dare spazio a opere nate dalla penna di voci giovani e inedite, e ciò non sempre voleva dire pubblicare con Einaudi. Laddove infatti lo stile o il tema trattato erano lontani dalla linea editoriale, lei si impegnava a indirizzare autori e autrici verso realtà a loro più adatte. Non lasciava mai che una proposta rimanesse senza risposta, anche se negativa, e dove possibile cercava di far emergere tutte le potenzialità nascoste di un testo. Nella sua lunga carriera di lettrice ci sono stati romanzi a cui si è affezionata in maniera particolare e sin da subito, come se ne fosse rimasta folgorata. Uno dei più noti è L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Era l’ottobre del 1948 quando Natalia pescò a caso un mucchio di fogli tra i manoscritti che invadevano la sua scrivania e cominciò a leggere le prime pagine del meraviglioso romanzo partigiano dallo stile «misurato, sobrio». Ne rimase così impressionata che concludendo la scheda di lettura scrisse solo: «Da farsi, da farsi, da farsi». Il romanzo dell’autrice bolognese fu accolto con grande favore della critica, tradotto in quattordici lingue e si aggiudicò il Premio Viareggio nel ’49.

Se si analizzano i suoi pareri di lettura si noterà subito che ogni testo veniva sviscerato tenendone ben presente tutti i livelli: la struttura e il ritmo della narrazione in primo luogo, i registri narrativi, ma anche l’approfondimento dei personaggi, così comela descrizione di oggetti e ambientazioni. A questo proposito è interessante ricordare la lettera di Italo Calvino del 1961 in cui scrive a Natalia di essere rimasto colpito da un vero e proprio «approfondimento geografico» in Le voci della sera. Questo aspetto così importante per il suo lavoro di scrittrice era tra quelli che più ricercava nei manoscritti che le venivano sottoposti. D’altronde i luoghi, così come gli oggetti, sono sempre stati fondamentali nella poetica narrativa di Natalia. Dunque non stupisce se L’Agnese va a morire sia uno dei pochi casi in cui un redattore einaudiano di quegli anni sia riuscito letteralmente a imporre la pubblicazione di un’opera senza che questa fosse sottoposta alle canoniche tre letture previste dalla casa editrice.

Intanto l’attività di lettrice non aveva compromesso quella di traduttrice. Nel ’45 uscì Il silenzio del mare di Vercors; l’anno successivo videro finalmente la luce i primi due volumi della Recherce, mentre quelli successivi furono affidati ad altri autori. Gli anni Ottanta furono molto fruttuosi e Natalia lavorò a diverse traduzioni. Per Einaudi uscirono Madame Bovary di Gustave Flaubert, Il racconto di Peuw, bambina cambogiana di Molyda Szymusiak, e Suzanna Andler di Marguerite Duras. Fu Bollati Boringhieri, invece, a pubblicare l’autrice finlandese Sirkku Talja e il suo Non mi dimenticare, scoperta editoriale di cui Natalia era particolarmente orgogliosa e che tradusse sempre dal francese. Nel 1994, infine, uscì la sua ultima traduzione, ovvero Una vita di Guy de Maupassant per la collana «Scrittori tradotti da scrittori».

L’attività editoriale di Natalia Ginzburg è stata lunga, costante e proficua. Questa donna minuta e austera era uno dei perni fondamentali su cui si reggeva quella che Ernesto Ferrero definisce come la «bizzarra tribù accampata nelle stanze di via Biancamano». Era riservata, parlava poco e osservava molto, ed era raro che durante le riunioni del mercoledì prendesse la parola. Eppure tutti si fidavano del suo parere tanto che divenne presto indispensabile per molti, soprattutto Calvino e Pavese. Un parere il suo dalle origini quasi viscerali, che sembrava nascere da quelle «antenne misteriose», come amava definirle Giulio Einaudi, «che captano gran parte dei sentimenti della gente».

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