Di Georgiana Ursache
La casa editrice Utopia è giovanissima, una nuova generazione che guarda all’editoria e lo fa con un obiettivo preciso, essere rigorosi nella produzione di letteratura di qualità. Quasi quattro anni di vita, quaranta titoli pubblicati che formano un catalogo che definiscono <<pietra fondante>>. Nel 2020 dichiaravano <<dimostreremo che non sempre è obbligatorio adeguarsi al mercato per sopravvivere>>, gli anni e i lettori hanno risposto a questa postura.
Ma per comprendere meglio la filosofia e le scelte che stanno dietro a questa realtà, ho avuto il piacere di domandare a Gerardo Masuccio, fondatore e editor della casa editrice, qual è l’utopia che li guida – un atto tutt’altro che astratto.
<<Utopia è una casa editrice europea di lingua italiana>>, così vi presentate ai lettori sul vostro sito. Nata nel 2020, seppur giovane, la vostra casa editrice ha già una sua identità precisa e lo si evince dal catalogo – diviso nelle due collane Letteraria Europea e Letteraria Straniera. Da questa descrizione Utopia è numerose cose, quindi le vorrei chiedere come definirebbe l’identità della casa editrice, è italiana? È europea?
Dal punto di vista della definizione, è una questione di prospettiva, dettata inevitabilmente da scelte generazionali. Io sono nato negli anni Novanta, così come le altre professioniste e professionisti che collaborano con me. Fin da bambini ci siamo sentiti italiani europei e in quest’ottica è stato inevitabile abbracciare una prospettiva più ampia nel momento della nascita della nostra casa editrice. Credo che il miglior modo per partecipare al consenso europeo sia spingere sulla propria lingua, a cui tutti noi siamo molto legati, ma in una prospettiva corale, perché è più realistico guardare verso un’Europa unita. Potrei riassumere dicendo che Utopia è un’impresa europea, ma di lingua italiana.
Dall’altro lato, da un punto di vista dell’identità, l’obiettivo iniziale, rimasto poi costante negli anni, è stato di selezionare una dozzina di libri all’anno che abbiano spiccata vocazione letteraria, che non durino una sola stagione, ma che siano destinati a segnare la storia della letteratura, o lo abbiano già fatto.
Parlando proprio del catalogo, cito due titoli, Gente nel Tempo di Massimo Bontempelli e Ventre sepolto di Aliyeh Ataei. Guardando già solo questi due libri, si comprende la direzione che avete scelto, ovvero quello di un viaggio, sia fisico – nel caso dei due libri citati, Italia e Iran – che temporale – Bontempelli autore di inizio Novecento, Ataei autrice contemporanea. Qual è dunque l’equilibrio tra presente e passato ma soprattutto, pensando al lavoro di una casa editrice, tra presente e futuro?
La letteratura vera si coniuga al presente, quando inizia a coniugarsi al passato prossimo significa che non lo è mai stata veramente. Le opere appartengono al contesto in cui vengono prodotte, ma tra Bontempelli e Aliyeh Ateai è innegabile che ci siano molti punti di comunione. Sono uno scrittore e una scrittrice che hanno tentato di indagare con una lucidità strabiliante il mistero più profondo dell’essere uomo e donna, accendendo la luce sulla condizione umana.
Bontempelli ha scritto Gente nel Tempo a metà degli anni Trenta, mentre Aliyeh Ateai ha scritto il suo romanzo una decina di anni fa, sono otto decenni a separarli. Quando si arriva alla dimensione dell’universale, ovvero quando la letteratura si sublima, il tempo diventa una questione secondaria e irrilevante. Forse anche per questo la letteratura è davvero arte, perché in quanto tale ci aiuta a trovare quel noi longevo e intramontabile.
Rimanendo sui libri stranieri, Utopia ha nel suo catalogo scrittori come Perumal Murugan, il primo autore di lingua tamil pubblicato in Italia, con il libro Punacci, storia di una capra nera. Questo è un esempio di come si possono raggiungere testi in lingue lontane, sia fisicamente che nell’immaginario letterario. Come si incontrano queste storie lontane? Attraverso quali canali?
Credo che il principale modo sia la curiosità e la consapevolezza dell’editor. Oggi l’essenza letteraria si trova sempre più al margine e difficilmente al centro, e questo si lega anche a fattori strettamente geopolitici. Quando leggo grandi scrittori dei primi anni Sessanta del continente africano o asiatico (sono pochi quelli tradotti in Italia, infatti li leggo in traduzione), mi rendo conto che c’è una cifra del tutto originale che invece manca in certi autori europei che scrivono negli stessi anni. Oggi questo fattore manca del tutto e le nostre letterature sono diventate secondarie rispetto a quei contesti. Questi paesi hanno maturato menti geniali, a mio avviso straordinarie, e proprio per questo motivo ritengo che meritino di essere tradotte nonostante le difficoltà tecniche. Per esempio, tradurre Perumal Murugan ha richiesto una lunga ricerca di un traduttore, dal momento che Utopia non avrebbe mai accettato di tradurlo per interposta da altre lingue, come l’inglese.
Dunque, è qualcosa di complicatissimo. Tutte queste lingue che Utopia sta portando in Italia, hanno solo tre o quattro professionisti capaci di tradurre un romanzo, e a volte nemmeno quelli. È complesso, ma non per questo non bisogna tentare.
Non è la prima volta che accade qualcosa del genere nel panorama editoriale italiano. Basti pensare a quando Valentino Bompiani ed Elio Vittorini hanno insegnato all’Italia che la letteratura anglofona non era solo quella inglese, ma anche quella americana. Qualcosa di simile è successo negli anni Cinquanta, quando grazie a delle agenzie lungimiranti, per di più spagnole e non solo, e a un certo interesse di piccoli e grandi editori italiani, lungimiranti a loro volta, si è capito che il Sud America era una miniera d’oro per la letteratura. Così ancora deve essere successo quando case editrici preziose come Adelphi o Voland hanno posto lo sguardo sulla Mitteleuropa. O ancora quando negli anni Ottanta, Iperborea ci ha ricordato che esistevano anche le letterature nordiche. A mano a mano, tasselli del mondo letterario si sono aggiunti al puzzle della traduzione. Ecco, io penso che in questo ambito, l’Italia sia un po’ pigra, un po’ lenta nell’aprirsi verso civiltà lontane. In quattro anni Utopia ha iniziato a tradurre almeno da quattro, se non cinque, nuove rotte linguistiche che non erano state percorse. Sono il primo a dire che sia fondamentale leggere gli americani, gli inglesi, i tedeschi, i francesi, ma non è più sufficiente. In questo presente dove il mondo è a portata di mano occorre fare quel passo in più, avere la curiosità per scavalcare barriere invisibili, per poi affrontare la complessità tecnica che è tipico di chi è pioniere.
Aggiungo, infine, che è assurdo, ritornando a Perumal Murugan, che appartiene a una civiltà che ha cento milioni di parlanti della lingua tamil, molto più nutrita di quella francofona o tedesca, sia sconosciuta in Italia. Perumal Murugan, per di più, dopo la traduzione di Utopia, ha avuto una candidatura al Booker Prize e al Nobel. Ecco, non si può arrivare a questi scrittori solo quando esplodono, bisogna coltivarli per tempo.
Ultima domanda sui titoli che pubblicate, in particolare sulle assenze. Nel catalogo di Utopia mancano la poesia e gli esordienti italiani. Greta Bertella, che le ha fatto un’intervista per Culturificio, scrive <<Forse bisognerà aspettare gli esordi italiani per capire l’identità di Utopia>>. Come la pensa? E cosa sono queste assenze?
Non sono delle assenze programmate, semplicemente non mi è ancora capitato un autore italiano che mi piacesse così tanto da meritare la pubblicazione. Però non è nemmeno qualcosa di strano se si pensa che nella nostra casa editrice ogni giorno leggiamo testi provenienti da tutto il mondo e quelli italiani sono numericamente una piccolissima parte. Confesso che a me piacerebbe molto iniziare a introdurre nel catalogo un giovane scrittore o una scrittrice italiani, è che quelli che ho letto non mi hanno convinto del tutto.
Per quanto riguarda la poesia, in realtà il catalogo di Utopia ha opere di Naja Marie Aidt e Anne Carson. Credo che dire che manchi la poesia sia una lettura superficiale. L’assenza che si recrimina è quella della silloge montaliana – di cui sono personalmente appassionato e che leggerei tutti i giorni. Bisogna però essere consapevoli che oggi la poesia, specialmente all’estero, ha preso delle nuove strade che molto frequentemente passano attraverso una narrativa poetica o una poesia prosastica. Ananda Devi è una poetessa e lo si evince solo leggendola, ma posso farti anche altri esempi come Hamid Ismailov o Agustín Fernández Mallo. Personalmente ho un debole per la poesia, mi appassiono, non avrei mai potuto escluderla.
Da questo punto di vista, dunque, il vostro catalogo si svincola dalle etichette, rimane sulla frontiera.
Si, le nostre collane non si basano sul genere. I lettori di Utopia sono collezionisti, sono delle persone che si affidano alla nostra selezione e non sanno di che cosa si tratterà finché non aprono il libro: un romanzo, una raccolta di racconti, un racconto lungo, poesia o teatro.
Proprio sul rapporto con i lettori, l’attenzione si evince dalle alette dei vostri libri, dove lei stesso dedica e firma una Lettera a uno sconosciuto. In prima persona racconta e mette in rilievo la visione che ha colpito la casa editrice e lei stesso come editor e come editore. Le volevo dunque chiedere di questo rapporto con i lettori. Inoltre, questa pratica di firmare i paratesti di proprio pugno è una abitudine che aveva Roberto Calasso per gli Adelphi. Il nome stesso del libro dove racconta questa prassi si intitola Cento lettere a uno sconosciuto, è una citazione la sua?
La scelta della mancata sinossi nelle alette dei libri è una questione personale, preferisco raccontare al lettore i motivi per cui mi è piaciuto il libro. Penso che sia fondamentale, in un’epoca in cui abbiamo costante accesso a tutte le sinossi in tutte le lingue del mondo, non raccontare un’altra volta in maniera ripetitiva la trama, ma spiegare al lettore come mai fra migliaia di proposte quel libro è stato scelto da Utopia.
Inoltre, è una questione di responsabilità. Sempre più spesso l’editoria sta diventando un’astrazione, non si sa più chi prenda le decisioni, chi abbia scelto quel libro e perché proprio quello tra migliaia possibili. Nel bene e nel male, esserci con nome e cognome ricorda agli altri il processo artigianale che c’è dietro quella scelta. Inoltre, mi ricorda che sono esposto rispetto ai tanti lettori della casa editrice, e quindi sono io ad assumermi la responsabilità di soddisfarli e di non deluderli.
Per quanto riguarda Calasso, per me è stato una figura di riferimento. Inoltre, è stato anche uno dei primi ad aver letto i libri di Utopia, seguendo le pubblicazioni della casa editrice.
Lei mi chiede se c’è una citazione, probabilmente sì. Però devo dire che da quando abbiamo intrapreso la pratica del rivolgerci direttamente ai lettori e alle lettrici, anche altre case editrici hanno fatto lo stesso. Come diceva Calasso, la letteratura è una <<ghirlanda di plagi>>, tutti ci ispiriamo vicendevolmente, tutti lasciamo qualcosa in qualcun altro, e lo ha fatto a maggior ragione lui che era un maestro, il più grande editore italiano del Novecento.
Tornando a Calasso, solo per rubare altre parole ed avendo appena parlato di furti mi sembra perfetto, vorrei esplorare un’altra parte dell’identità di Utopia che è quella delle copertine. Calasso parlava delle copertine della Biblioteca Adelphi come un’acfrasi capovolta, cioè del tentativo di trasporre la parola in immagine. Vorrei soffermarmi sull’identità delle grafiche di Utopia, alla luce della fortissima attenzione al contenuto a cui si accompagna un’estetica altrettanto marcata.
Credo che nei prossimi vent’anni l’editoria cambierà talmente tanto da non essere più riconoscibile. Chi è nato negli anni Sessanta / Settanta ha assistito al crollo della discografia – che è un mercato affine a quello dell’editoria. In pochi anni la discografia è stata spazzata dal digitale e non si è più tornati indietro. Anche all’editoria succederà qualcosa di affine, tra venti, venticinque anni non esisterà più come l’abbiamo conosciuta – anzi i numeri confermano che questa non è una previsione ma una costatazione. Sono dell’avviso che avrà molte più chance di sopravvivere una casa editrice che abbia, pur con una distribuzione industriale, un approccio artigianale rispetto a un editore generalista. Una grande casa editrice di cui non si ricorda più il marchio ha meno chance di perdurare rispetto a un editore riconoscibile. Ecco, io desideravo che Utopia fosse identificabile e ovviamente, al di là delle scelte editoriali, le immagini avrebbero aiutato molto in questo processo. Ho commissionato a Giovani Cavalleri la gabbia di copertina – perché desideravo che ce ne fosse una, nella tradizione delle gabbie novecentesche esaltate da case editrici come Gallimard, Adelphi e molte altre. È stato molto complicato trovare una gabbia che scomponesse, decostruisse, demolisse quella novecentesca, ma Giovanni Cavalleri ci è riuscito proponendo un tipo di grafica molto classica, quella della sezione aurea. Non mi era ancora capitato di vedere nessuna casa editrice che proponesse questo tipo di layout, un vortice che seguisse un’immagine classica, non alla moda, e proprio per questo resistente al tempo.
Ultima domanda sui progetti futuri di Utopia. Lei mi ha raccontato dell’attenzione e la cura verso i libri, ma soprattutto verso il futuro di questi – non a caso il motto della vostra casa editrice è <<oltre la polvere>>. Allora le chiedo, qual è il futuro e dunque l’eredità di Utopia?
Personalmente guardo i dati di Utopia e mi piacerebbe continuassero così, a settembre compiremo quattro anni, appena quaranta libri in catalogo, ed è tra le case editrici che in Italia crescono di più e più velocemente, da tutti i punti di vista, sia dei lettori che per la distribuzione – non è scontato poter dire che quasi tutte le librerie hanno titoli di Utopia. Inoltre, sono colpito dall’attenzione della stampa, ogni settimana ci sono numerosissimi articoli per cui sono molto grato. Quando ho fondato questa casa editrice e mi sono confrontato con la distribuzione e con il gruppo di lavoro, ci siamo posti una domanda: qual è il rischio più grande? Era che questa casa editrice rimanesse una tipografia. È ovvio che le tipografie sono preziose per la realizzazione del libro, senza questa attenzione nemmeno i libri di Utopia avrebbero la stessa qualità. Ma una tipografia fa un mestiere completamente diverso rispetto a quello di una casa editrice, e oggi tante case editrici stampano libri e non riescono a valorizzarli. Quello che volevamo fare noi era trasporre l’amore per uno scrittore o una scrittrice tramite l’urgenza di pubblicare e farli conoscere il più possibile.
Tutto quello che è capitato in questi tre anni e mezzo è già un piccolo lascito. Ovviamente parlare di eredità è forse inadeguato, ma mi sento di dire che se continuassimo su questa linea io ne sarei contento, essere come siamo senza tradire i lettori.