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Effetto Strega 2021 – Intervista a Edith Bruck (Il pane perduto, La nave di Teseo)

Intervista a Edith Bruck, candidata al Premio Strega 2021

A cura di Carla De Rosa, Gaia Bettio, Concetta Sorvillo (Scuola del libro).

Ditke vive in un piccolo paese dell’Ungheria rurale a cavallo tra gli anni ‘30 e ‘40. Ha dodici anni quando viene privata della sua infanzia: il pane perduto, lasciato a lievitare per sempre nella casa di famiglia abbandonata in fretta e furia, segna l’inizio della sua esperienza ad Auschwitz. Nell’odissea senza fine dei campi, le resta solamente la sorella Judit: saranno l’una la forza dell’altra fino alla loro liberazione. Ditke si affaccia su un mondo alieno, quasi ostile, del quale non riesce a riconoscere i tratti. La sensazione di essere estranei persino a sé stessi, la voglia di essere ovunque e in nessun luogo. L’irrequietezza fisica, psicologica, emotiva porta Ditke dapprima in Israele: luogo favoleggiato dalle tradizioni in cui non riesce a trovare l’insperata pace; poi in giro per l’Europa, a seguito di una compagnia di altri esuli come lei. Finalmente l’approdo in Italia, dove Ditke ritrova l’identità e la voce: comincia a scrivere, una necessità costante quasi famelica, un flusso che scioglie il nodo dei ricordi; conosce il compagno di una vita, il poeta Nelo Risi; tramanda la memoria alle nuove generazioni. E comincia a vivere.

Carla De Rosa: Buonasera a tutti. La prima domanda che noi studenti del Master della Scuola del libro avevamo pensato di porle era sulla sua produzione letteraria. Riflettendo sulla sua produzione letteraria precedente (sia in prosa che in poesia) legata alla testimonianza della Shoah, cosa l’ha portata adesso – a distanza di tutti questi anni – a scrivere Il pane perduto? E come si colloca all’interno della sua produzione?

Edith Bruck: Ho pensato che dopo sessant’anni fosse giusto ricominciare da capo a raccontare il mio vissuto, in particolare la mia infanzia e il tempo trascorso in Italia. Quello che scrivo nei miei libri è ancora oggi, purtroppo, molto attuale. Ormai faccio testimonianza da oltre sessant’anni, soprattutto nelle scuole: si è cominciato già dopo la guerra a mistificare quello che era avvenuto. La sofferenza tocca moltissime persone oggi, e io credo che tocchi tutti, non soltanto i sopravvissuti. Anzi, riguarda soprattutto gli altri: quelli che hanno collaborato, quelli che erano gli alleati alla Germania nazista e ci hanno deportato, che erano ungheresi e non tedeschi. Purtroppo raccontare è sempre un gesto attuale, bisogna ricordare e tenere la memoria viva fino all’ultimo. Non è una storia che riguarda soltanto me, ma tutti. Anche perché ancora oggi esistono razzismi, discriminazioni, persecuzioni, e io credo che il mondo manchi proprio di amore. Bisogna raccontare, in qualche maniera, e credo che, tutto sommato, in tutte le scuole in cui sono andata i giovani ascoltano, è sufficiente parlargli. Io ho trovato dappertutto persone splendide, che quasi mi spaventavano perché mi sembravano fin troppo mature. Mi scrivono lettere bellissime, come se fossero persone adulte. Entro sempre con un po’ di ansia nelle scuole, ma credo che ne valga ogni volta la pena. Dico sempre che se durante la mia vita riesco a cambiare tre, quattro, cinque persone non sono sopravvissuta inutilmente. Credo comunque di aver cambiato molte più persone, perché trovo sempre risposta da parte dei ragazzi. Ormai sono andata a parlare nelle scuole di mezza Italia. Entro sempre con l’animo un po’ pesante, perché devo raccontare di temi molto difficili. Io stessa soffro raccontando. Quello che è davvero importante è che sappiano per sé, per il futuro e per il loro rapporto con il mondo. Che stiano con gli occhi aperti e facciano la guardia. Come mi diceva Primo Levi: «noi facciamo la guardia e raccontiamo, e questo raccontare in qualche misura ci alleggerisce il peso che portiamo dentro, perché non è un vissuto che si può dimenticare né si deve dimenticare».

Gaia Bettio: Grazie. Noi studenti della Scuola del libro, in collaborazione con l’Istituto Pacinotti, di cui abbiamo qui un rappresentante, Giovanni Ruocco, vorremmo porle la prossima domanda che verte sul titolo Il pane perduto. A un primo sguardo un titolo oscuro, che si svela piano piano nella lettura: è il legame con le origini, il simbolico punto di svolta nella vita della famiglia, il richiamo a un passato quasi fiabesco, la connessione alla religione. Esso è anche simbolo dell’altruismo nei momenti bui. Ci chiedevamo se questo valore provenisse dalla madre o fosse una sorta di rassegnazione vicina all’indulgenza.

Edith Bruck: Quando la mattina all’alba verso le cinque i fascisti ungheresi sono venuti a bussare per deportarci, a buttare giù la nostra povera porta, la prima cosa a cui ha pensato la mamma era al pane che in quel momento stava lievitando. Ci tengo a precisare che la farina ce l’aveva regalata la nostra vicina – perché non è mai tutto nero nella vita, neanche nei momenti e nelle circostanze peggiori. Sono quelli che nel libro chiamo «i cinque punti di luce». La nostra vicina ci aveva regalato della farina per la Pasqua ebraica, durante la quale non si mangia pane per otto giorni. Sapete che prima della fuga dall’Egitto non c’era tempo di far lievitare e crescere il pane. Mia mamma era disperata per queste cinque pagnotte, che per noi erano la vita – la mamma diceva sempre «quando c’è pane c’è tutto» – e una volta lievitato diceva contenta «bellissimo». Poi hanno bussato alla porta e ci hanno cacciato immediatamente. Lei aveva fatto confluire il suo dolore e il presentimento di qualcosa di mostruoso sul pane. E piangeva «il pane il pane perduto», così questo grido ci ha accompagnato fino al ghetto dove ho visto per la prima volta un tedesco. Devo ammettere che le sue urla non mi ferivano come quando a urlare e bestemmiare erano i miei connazionali ungheresi. Con loro ogni parola era per me come uno sparo, una frecciata, mentre il tedesco non poteva toccarmi, dal momento che non capivo una sola parola, per quanto arrivassi a intuire il loro significato, visto conosco un po’ di yiddish, che assomiglia leggermente a un brutto tedesco. L’ungherese, invece, era una ferita terribile. C’è da dire che non tutti nel quartiere erano fascisti. Un contadino benestante riuscì inspiegabilmente a superare sia le guardie ungheresi che quelle tedesche, portando dei viveri con sé dentro il ghetto. Forse aveva dato qualcosa pure a loro, forse si è trattato di corruzione, in ogni caso era un gesto impossibile in quella situazione. Mia mamma piangeva di felicità. Lo voglio raccontare perché secondo me proprio quando ci si trova nel buio più pesto bisogna raccontare quei frammenti di luce che abbiamo visto e per cui abbiamo pensato valesse la pena vivere e andare avanti a difendere la nostra vita. 

Concetta Sorvillo: Nella sua risposta ha parlato di lingua, ed è a proposito della lingua che noi vorremmo farle la nostra terza domanda. Posta in collaborazione al Liceo Leonardo Da Vinci di Salerno, di cui Alessandro Cerra, qui presente, è il rappresentante. Ci interessava sapere dell’utilizzo della lingua nel Pane perduto. Essa assume una connotazione simbolica: la protagonista non conosce l’ebraico come la madre e la sorella, sembra quasi riacquistare la propria voce solo una volta in Italia. Alla fine del libro lei sostiene che «sono necessarie parole nuove, un nuovo linguaggio, anche per raccontare Auschwitz». Alla luce di questo le volevamo chiedere: qual è il ruolo che ha la lingua?

Edith Bruck: La lingua per me – parlo della lingua italiana – è identità, è questo paese; non voglio dire che sia patria perché non mi piace la parola “patria”, visto che in nome della patria, come nel nome di Dio, sono state commesse delle cose orribili . Per me la lingua è come una Muraglia Cinese: mi difende dai ricordi molto dolorosi come la lingua ungherese, la mia lingua natia. Questa lingua mi ha dato un’identità, mi ha permesso di esprimermi. Mi ha dato una casa, mi ha dato un marito italiano. Si può dire che tutto quello che potevo desiderare l’ho ricevuto dall’Italia. Ma credo di aver dato anche io all’Italia in questi sessant’anni, parlando faticosamente con i giovani delle scuole.

Alcuni ragazzi ascoltavano la musica nelle cuffie. Così gli ho detto: «ragazzi, a chi non interessa quello che dico, può uscire. Perché io non parlo di mia madre bruciata mentre voi ascoltate la musica». Sono usciti in cinque ragazzi, ma per me contano i quattrocentonovantacinque che sono rimasti, non quei pochi che sono usciti. Per me era molto importante che rimanessero lì. Ci sono ragazzi che piangono, ma a piangere sono anche io. Per i primi vent’anni, per esempio, ogni volta che si arrivava al momento della separazione da mia mamma, crollavo; quello non sono riuscita a raccontarlo fino in fondo, dentro qualcosa si è rotto. È successo anche tre giorni fa, ma penso che forse è meglio piangere che essere di pietra. Io credo che finché sento, e a sentire non sono solo io ma tutti, e finché possiamo piangere, allora va tutto bene. Il guaio è quando non siamo più in grado di farlo.

Carla De Rosa: La prossima domanda invece è sulla scrittura, è stata formulata in collaborazione con Sara Bonara, del Liceo Ariosto di Ferrara. Nel libro parla spesso della sua passione per la scrittura, della difficoltà di poterla coltivare in mancanza di quaderni. Nonostante sua sorella la inviti a lasciare da parte il suo sogno, lei continua a scrivere. Come si è evoluto questo rapporto con le parole nel corso del tempo? Com’è stato dare vita a un libro così denso di memoria e porlo nelle mani di un editor?

Edith Bruck: Quando siamo tornate con mia sorella dal campo di concentramento, mia sorella maggiore – che in realtà si chiamava Adele – è stata per molto tempo un grande appoggio. «Non c’era ascolto», come diceva anche Primo Levi e come dicevano molti sopravvissuti. La guerra era ancora troppo viva e troppo dolorosa per tutti. Ma la loro sofferenza non era paragonabile con la nostra, un unicum nella storia del Novecento, che non si può paragonare a nient’altro.

Era sicuramente una forma di difesa, non si trattava solo di cattiva volontà, però noi avevamo una tale voglia di raccontare: ero gonfia di parole, sopportare non mi era più possibile. Così ho preso un quaderno – uno scolastico, perché non avevo nient’altro –, una matita, e ho cominciato a scrivere in ungherese quello che poi sarà il mio primo libro Chi ti ama così, uscito nel ‛59. È un piccolo libro autobiografico.

Poi sono dovuta scappare dall’Ungheria, perché non c’era nessuna possibilità di cominciare una nuova vita, sia nel mio villaggio che nel resto del paese. Assolutamente nulla. Non sapevo dove andare, come vivere, come e con chi, poi? Con chi? Perché avevo perso i miei genitori, mio fratello, e la casa era andata distrutta. Voglio dire… era impossibile, non sapevo veramente dove sbattere la testa. E quindi sono andata da una mia sorella in Cecoslovacchia, e lì mi hanno detto di buttare via tutti gli scritti ungheresi, perché odiavano gli ungheresi, altrimenti ci avrebbero chiuso in prigione. Alla fine ho buttato via tutto, ma non tutto il libro, perché era scritto solamente in parte. 

Infine, quando sono arrivata in Italia, ho imparato la lingua italiana e ho ricominciato a scrivere lo stesso libro nel ‘46, perché non si poteva sopportare quel veleno che era dentro i nostri corpi. Avevamo bisogno di dire, di gridare. Mi sono detta che la carta sopporta tutto; se gli esseri umani non hanno orecchie per ascoltarci e non vogliono ascoltarci, allora scrivo. Dopo tanti anni di pellegrinaggi su e giù per l’Europa, una volta giunta in Italia, ho potuto finalmente imparare una lingua.

Seduta su uno sgabello, scrivevo appoggiata a un baule – l’unica cosa mi restava – Chi ti ama così. Un libro molto bello, al punto che lo scrittore Romano Bilenchi e poi il poeta Mario Luzi hanno fatto una scommessa. Luzi ha detto: «Bruck scriverà sempre», e Bilenchi ha replicato: «No, perché ha vissuto questa cosa, e non scriverà più». Ha vinto Mario Luzi, anche perché da quel momento ho scritto molto. Adesso pubblicherò il quarto libro di poesia. Fin da bambina, quando la mamma mi diceva di dire le preghiere a letto, io mormoravo una poesia. Non avevo quasi mai osato scrivere poesie, dopo l’infanzia, anche se per me era il massimo dell’espressione. La mia primissima poesia si chiamava «L’uguaglianza padre». Il titolo intende dire che di fronte alla guerra gli uomini erano tutti uguali, condannati allo stesso destino; i ricchi e i poveri, i brutti, i cattivi e i buoni. Era arrivata la terribile uguaglianza del male. Era il primo membro della famiglia di cui scrivevo. Dopo ho scritto di mamma e di mio fratello, e lentamente è nato Il tatuaggio, che è un buon libro, a mio parere.

Adesso l’Università di Macerata ha raggruppato tutti i miei primi tre libri in un solo volume che si chiama Versi vissuti. Pubblicherò a breve un quarto libro di poesia per La Nave di Teseo, che si chiamerà Tempi. Riguarda molto i tempi di oggi nei quali viviamo, più che il richiamo al passato.

Gaia Bettio: A tal proposito, noi allieve della Scuola del libro abbiamo elaborato una domanda in merito al suo approccio alla scrittura. Volevamo capire se è un flusso istintivo, oppure se ci sono delle costruzioni di struttura alla base. Come si vive l’emozione del produrre un’opera simile, vista la tematica così intensa?

Edith Bruck: Ho sempre detto che rimango incinta di un libro che è come se partorissi a ogni libro. I libri sono figli, maturano dentro di me in un vero concepimento. A volte basta un titolo come Il pane perduto e comincio a scrivere. È un flusso, come dici tu, ed è continuo: non mi fermo mai, fino a quando non finisco il libro. Non decido mai come continuerà. La cosa incredibile è che non so nemmeno quale sarà la lunghezza. Io sono una scrittrice istintiva e carnale, non mentale. Come diceva uno scrittore inglese, si può dire che alla fine il libro si scriva da sé. E quindi mi basta un titolo oppure un pensiero, e comincio a scrivere. Non calcolo niente, non ricamo niente, è sempre molto vero, semplice, e fluisce dalla mia pancia, dal mio sangue, è una cosa di carne, è corporale. E per la poesia vale la stessa cosa. Basta un titolo o semplicemente un pensiero. Non so neppure che cosa verrà fuori. Anche se più di venire fuori si può dire che nasca – c’è qualcosa di miracoloso in questo. Si può dire che dentro di me quello che scrivo sia già maturato inconsciamente. Va avanti da solo.

Concetta Sorvillo: La prossima domanda è un po’ più generica. Parlando anche con i ragazzi delle scuole, è nata in modo più istintivo; l’abbiamo sviluppata con i ragazzi del Liceo Pacinotti di Cagliari, insieme a Giulia Mereu. Come dice lei, questo è un libro, un po’ come tutta la sua opera, molto intenso; in centoventi pagine è riuscita a racchiudere tutta la sua esistenza. Ripensando al passato e, più in generale, a tutto ciò che ha vissuto, ci domandavamo: cosa pensa dell’essere umano oggi e, soprattutto, crede che possa esistere qualcosa che possa cambiare la sua profonda natura?

Edith Bruck: Riguardo alla natura umana e all’essere umano, penso di essermi sicuramente censurata. Cosa potrei pensare dell’essere umano? È difficile dirlo, ma non ripongo molta fiducia nell’uomo. Io credo che l’uomo né ieri, né oggi, né domani cambierà. Non c’è niente da fare, perché in qualche maniera siamo ottusi, autopunitivi, ci sentiamo in colpa per qualcosa, come se ci fosse una colpa ancestrale. Altrimenti è impossibile spiegare come l’uomo non impari mai niente dal passato e ricominci tutto da capo. Basti pensare che ingegneri, architetti, scienziati, medici e tecnici si sono seduti a tavolino per calcolare come annientare oggi mille persone, domani duemila e farlo nel minor tempo possibile, per poi sfruttare tutto quello che potevano usare del corpo umano. È stato fatto da esseri intelligentissimi, da scienziati, non da analfabeti. Mi domando a cosa serva l’intelligenza, se l’uomo capace siede intorno a un tavolino per decidere il destino di un popolo, non solo quello ebraico, ma di un qualsiasi popolo. In molti, come ad esempio l’architetto di Hitler Speer, su cui mio marito girò un documentario altri, si sono successivamente limitati a dire: «ci hanno comandato e abbiamo eseguito». Io nei miei libri e, in special modo in Lettera alla madre, ho dichiaro di preferire un padre vittima a un padre assassino che esegue degli ordini. 

La seconda guerra mondiale è stata una mostruosità, un massacro folle, e nonostante questo l’uomo continua ad armarsi nel nome della “pace”, quando ancora bambini muoiono di fame. Allora che cos’è che può far cambiare l’uomo? La fede e la preghiera non cambiano le persone, perché sia oggi che in passato sono state combattute molte guerre in nome di Dio. Allora che cosa deve succedere per far cambiare l’uomo? Come dicevo a Papa Francesco, io credo che noi tutti possiamo fare una piccola parte di bene nel mare del male, e ognuno di noi può fare qualcosa: rispettare il prossimo, chiunque egli sia, di qualsiasi colore sia, di qualsiasi religione sia. Credo che basti davvero poco, un minimo di tolleranza, di simpatia o di vicinanza. Io credo che noi tutti possiamo fare qualcosa, non soltanto coloro che scrivono. Il futuro dipende soprattutto da voi giovani, da voi che potete agire, protestare, ma anche avvicinare e amare il prossimo. Uno dei problemi dei giovani oggi, per esempio, è che sono molto isolati tra di loro: è necessario che parlino tra di loro, con i genitori e con i nonni, che spesso oggi vengono allontanati da casa. Bisogna convivere con loro, sentire cosa dicono, cos’hanno vissuto. Non bisogna allontanare, ma avvicinare e curare. Io ho curato mio marito undici anni e ogni mattina era come se avessi partorito. Ogni giorno i medici mi dicevano che sarebbe morto, e invece non era così, perché l’amore è la medicina migliore che esista. 

Carla De Rosa: Adesso abbiamo l’ultima domanda, che è stata formulata con Arianna dell’Istituto Salvemini di Alessano. Primo Levi in Se questo è un uomo afferma che per la sua sopravvivenza è stata essenziale l’amicizia con Alberto, il compagno con cui ha condiviso gran parte della prigionia, per lei invece è stata importantissima la presenza di sua sorella maggiore. Possiamo affermare che, anche all’interno di un’umanità così degradata, si possono trovare rari esempi di altruismo e generosità, quelli che lei chiama i cinque momenti di luce. Ce ne vuole ricordare uno in particolare?

Edith Bruck: Sì, vorrei ricordare i primi quattro. Il primo è durante l’arrivo ad Auschwitz: un soldato tedesco, uno di quelli che ci selezionavano come fossimo bestie, mentre ero aggrappata al corpo di mia madre, mi ha sussurrato di andare a destra, perché a sinistra c’era la morte immediata. Ha massacrato mia madre, ma mi ha buttato a destra, pensando che, pur facendo i lavori forzati, sarei potuta sopravvivere. Se mi ha mandato a destra, qualcosa deve essersi smosso in quel soldato. 

Il secondo riguarda un cuoco a Dachau, che una volta mi chiese quale fosse il mio nome. Questo episodio l’ho ricordato anche durante un colloquio con Papa Francesco. Sentirsi chiedere come ti chiami, dopo che sei stata solo un numero, è una cosa inimmaginabile. Riscoprire di avere un nome, di essere un essere umano, chi non è stato in un campo di concentramento, anzi di annientamento, non lo può immaginare. Il cuoco ha detto: «io ho una bambina come te», e ha tirato un pettinino fuori dal suo taschino del camice e me lo ha regalato per farmi pettinare i capelli rasati e corti. È stata una manna dal cielo, non si può dire cosa sia stata in quel momento la felicità, il sentirsi vivi. Non si può dire cosa sia stato in quel momento essere e non sentirsi un numero, non essere 11152, ma Edith. Ho risposto Edith. Un dono dal cielo. Non lo si può capire. 

Il terzo riguarda un soldato di Kaufering, uno dei cento sotto-campi di Dachau (mentre in tutta la Germania e l’Europa esistevano milleseicentotrentacinque campi di concentramento). Dachau era soltanto a diciassette chilometri da Monaco di Baviera, ma io pensavo di trovarmi fuori dal mondo civile. Lì un soldato mi ha buttato una gavetta da lavare, scagliandomela addosso, e io ho guardato se intorno al bordo non fosse rimasta della marmellata da leccare. Lì ho mangiato di tutto, anche la corteccia degli alberi e l’immondizia. Ho visto che ne aveva lasciato un po’. Papa Francesco mi ha chiesto che significato ha avuto questo momento, e io ho risposto: la vita, la luce. Non è immaginabile cosa abbia significato per me. Un altro soldato, per esempio, mi regalò un guanto bucato, e anche quel gesto significava la vita. Può darsi che i suoi guanti fossero bucati, perché la guerra stava già finendo, e anche i tedeschi si erano nel frattempo abbastanza impoveriti. 

Dopo Auschwitz, in campo di transito vicino Monaco, ho dato mangiare a ex-soldati nazisti; allo stesso modo, ho riportato a casa cinque fascisti austriaci. Questo perché bisogna cominciare con la pace, con l’avvicinamento e non con la vendetta o con l’odio. Bisogna avvicinarsi al nemico, perché forse non sarà più nemico, non sarà più fascista. 

Un altro momento è stato a Bergen-Belsen, dove ho vissuto la cosa peggiore che, però, è troppo triste per essere raccontata del tutto. Mia sorella maggiore aveva attaccato un soldato, per avermi aggredito. Io ero seduta nella neve insanguinata, avevo gettato a terra dei giubbotti che non riuscivo più a portare. Lui ha messo via la pistola, mi ha allungato la mano e mi ha aiutato ad alzarmi, ma ha fatto un discorso tipicamente razzista e nazista. Me ne ha dette di tutti i colori e mi ha detto che ero una «sporca ebrea», ma ha anche detto che se un’ebrea riusciva a mettere le sue luride mani su un tedesco, allora meritava di sopravvivere. Non mi ha ammazzato e mi ha accompagnato al ritorno, nella neve, per otto chilometri, mentre camminavo con gli zoccoli. Inoltre, mi ha aiutato ogni volta che ero colta dalla diarrea. Ogni volta che cadevo mi aiutava a ad alzarmi. E io continuavo a chiedergli, come se fosse mia madre: «per piacere pane, Brot bitte, bitte», continuavo a chiedergli del pane. Pane che non mi ha dato, perché appena siamo arrivati al campo è sparito. Mi ha salvato, però. Questo è il quinto momento di luce e anche se fioca, era luce, e finché c’è luce, c’è vita. 

Carla De Rosa: Ci dispiace tantissimo, è stata un’intervista bellissima, toccante e commovente, però purtroppo il tempo è finito. Ci teniamo molto a ringraziare lei, La Nave di Teseo, la Fondazione Bellonci e il Premio Strega e tutte le scuole che hanno partecipato. Diamo appuntamento a tutti al sette maggio, con l’intervista a Maria Grazia Calandrone su Splendi come vita, edito da Ponte alle Grazie. 
Edith Bruck: Grazie a voi, vi abbraccio tutti.

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