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EFFETTO STREGA – Intervista a Marco Amerighi (Randagi – Bollati Boringhieri)

Intervista a Marco Amerighi

A cura di Maria Federica Cefaliello, Gianluca Nitti e Aurora Portacci

Una maledizione pende sulla famiglia Benati: ogni uomo nato all’interno di questo albero genealogico con radici marce sarà destinato a svanire. A Pisa, all’ombra di Piazza dei Miracoli, Pietro attende il suo turno. Ha visto scomparire suo nonno, disperso nella guerra d’Etiopia e riapparso solo un anno dopo. È successo a suo padre, truffatore e bugiardo cronico, svanito per settimane per poi tornare sano e salvo ma senza il mignolo della mano destra. Quando però a dissolversi è suo fratello Tommaso, il mondo gli crolla addosso. Tommaso era la promessa della famiglia, il vincente, il suo unico punto di riferimento. Furioso e disorientato, Pietro si rinchiude in sé e rinuncia alla vita – nessuna prospettiva, nessun desiderio o futuro. Solo l’amore per una tormentata spagnola e l’amicizia con un eclettico francese riusciranno a tirarlo fuori dal guado. Randagi racconta il percorso di un protagonista alla frenetica ricerca di un metodo per innamorarsi della vita e ritrovare fiducia in essa. È proprio nei punti d’ombra, tra le sparizioni di uomini e certezze, che nascono i nodosi rapporti tra personaggi malandati e profondamente umani.

Randagi è una saga familiare, un romanzo corale. Su quante stesure di questo libro ha lavorato e, ritrovandosi a sviluppare nel dettaglio più personaggi, quanto si è evoluta nel corso del tempo la struttura del romanzo? 

Dico spesso che questo libro è come un fiume. Perché non sai mai cosa o dove ti porterà. A volte è impetuoso, a volte calmo. È stato sempre così, sin dall’ideazione. Per questo, forse, l’ho scritto e riscritto. Randagi ha avuto tante stesure che ho letto solo io, non saprei dirvi quante, tanti incipit (pensate che il primo apriva su Dora…). Finché ho capito che dovevo usare Pietro, non solo come personaggio principale, ma come ariete: per sfondare la curiosità e le possibili diffidenze del lettore, e per aprire a tutti i personaggi (Dora e Laurent, soprattutto) delle parti successive. L’effetto finale è perciò quello di una treccia, un fiume principale, che dà il via alla storia, attorno al quale si attorcigliano gli affluenti che lo accompagneranno fino alla foce. Non è un caso che, da storia di solitudine, il libro si trasformi in una storia di amore condiviso, di solidarietà.

In questo romanzo lei sceglie di concentrarsi su figure maschili con delle spiccate sensibilità. Quanto reputa importante modellare su carta uomini che siano a stretto contatto con le loro fragilità, proponendo un’alternativa ai diffusi stereotipi di mascolinità tossica?

Io sono un romanziere, non un saggista. E credo che i romanzieri non debbano mai costruire delle tesi, ma solo raccontare storie. Certo, una storia che rifletta la loro idea di mondo, i loro pensieri, i loro sogni. In Randagi ci sono tanti miei pensieri, anche sulla contemporaneità, come per esempio il ruolo del maschio, come giustamente avete notato. Ma vi confesso che non mi sono messo allo specchio e mi sono chiesto: qual è il ruolo del maschio oggi, come è cambiato nel Novecento? Come dovrei vederla io questa questione? Rileggendo alcuni autori che ho amato tanto (cito Carlo Cassola, ma potrei buttarne dentro altri) ammetto di averli trovati datati, nel loro pensiero da intellettuale bianco-maschio-eteronormativo. Ho cercato una mia declinazione romanzesca a questo tema. Perché non volevo convincere nessuno dei miei pensieri, ma solo raccontare una storia. Ecco perché ho creato una famiglia in cui sono gli uomini, i maschi, a scomparire, a perdere pezzi, alcuni persino a morire. Chi resta, chi non cede, chi pronuncia la prima e l’ultima parola del libro è, guarda caso, una donna: Tiziana, la madre di Pietro, l’unico personaggio del romanzo che resta ferma mentre tutto è un continuo turbinio di giri a vuoto.

Il tema della scomparsa rimane centrale nel suo romanzo, così come la profonda introversione del giovane protagonista Pietro Benati, personaggio che rimane sempre sullo sfondo, nel tentativo di mimetizzarsi. C’è un rapporto tra la maledizione della famiglia Benati e l’incertezza riguardo sé stessi e il proprio futuro? 

La maledizione dei Benati – quella che dice che ogni maschio della famiglia è destinato a scomparire – è il motivo per cui scrivo. La letteratura, credo, è l’unico modo per opporsi alla scomparsa. Noi scriviamo per fissare idee, personaggi, ricordi prima che scompaiano, prima che muoiano loro o noi. È una lotta urgente e necessaria. Come quella che fa Sherazade ne Le mille e una notte, che racconta per non essere violentata e per non morire. Io scrivo per posticipare la fine, la scomparsa, la morte. Certo, mentre scrivo non penso a questo (ahah), ma è da qui che nasce la mia fascinazione per questo tema. Un tema che in Randagi si somma alla mia passione per il Sudamerica (pensate a quanto ricorre il tema della scomparsa in Márquez, Onetti o Bolaño…). Pietro Benati sono io, siamo forse tutti noi: nel senso che se sappiamo che prima opoi scompariremo, se sappiamo che qualunque cosa facciamo saremo comunque destinati alla scomparsa, perché dovremmo affaticarci, addolorarci, umiliarci? Non sarebbe più facile cedere subito al fallimento e gettare la spugna, magari autoconvincendoci che in fondo non ci importava poi tanto dei nostri sogni di gioventù? Pietro anticipa la maledizione della scomparsa che pende sul capo dei suoi familiari perché ha paura di soffrire, si isola, rifiuta i contatti. Ma non ha fatto i conti con suo fratello maggiore, Tommaso, che lo stana e lo obbliga ad abbracciare la vita. «[…] che è là fuori. E non è rifiutandoti di guardarla che smetterà di esistere».

Pietro risulta essere un protagonista atipico, un eroe contemporaneo perché estremamente reale, imperfetto. Cosa ha significato per lei esplorare una figura priva di talenti, in una società capitalistica e alla costante ricerca di performatività?

Ha significato ricordarmi chi sono e da dove vengo: un ragazzo come tanti, che viene da una provincia sonnolenta, in cui metà dei miei coetanei si perdono, si lasciano galleggiare o, peggio, affogano. Ha significato ricordarmi che esiste una via alternativa: non il viaggio dell’eroe (come il famoso saggio di Vogel su cui si basano la maggior parte delle storie degli ultimi decenni), in cui il protagonista deve superare le difficoltà per raggiungere il suo oggetto del desiderio, ma il viaggio tout court. La vita non è una passerella verso il successo, che sia un buon lavoro, una bella casa o una famiglia: questo è un mito della società capitalista che ha prodotto storture di pensiero e diseguaglianze sociali. La vita è un viaggio, a questo pensavo mentre scrivevo, e non è un caso che Randagi sia un libro di incontri, di quegli incontri che certe volte ci possono persino apparire insignificanti e, invece, dentro di noi lasciano dei semi destinati a germogliare e cambiarci per sempre.

A proposito del rapporto di Pietro con Madrid, nel romanzo scrive: «Ero venuto qui per dimostrarti di essere un’altra persona, di saper vivere fuori dal mio guscio… e guardami adesso, sepolto vivo. Un non-morto. Senza desideri. Senza certezze», un passaggio che vuole descrivere il senso di smarrimento del protagonista che scappa dall’Italia sperando di trovare all’estero delle soluzioni a quesiti esistenziali. Come vive Pietro la sua condizione di expat?

Pietro non ha bisogno di andare all’estero per sentirsi expat. Lui lo è persino nella sua stessa casa (nella terza parte si trasferirà per ripicca ai suoi genitori al piano superiore dello stabile di famiglia). È un randagio, certo, è alla ricerca di un suo posto nel mondo, un posto che non trova perché attorno a sé non ci sono punti di appiglio: non uno stato, non una società solidale, non dei maestri, non una famiglia normale. Ma se vive da spaesato e randagio il suo soggiorno all’estero è soprattutto perché, come i suoi coetanei, anche lui è fuori dal tempo.Il G8 di Genova ha creato una frattura insanabile con la generazione precedente, che non li ha ascoltati né difesi. Quando arriva a Madrid, Pietro assiste agli attentati di Atocha, l’11 marzo del 2004, e sente una nuova fatica piombargli addosso: una paura esterna che nessuno, in Europa (almeno dai tempi della Seconda guerra mondiale), aveva mai provato. Pietro e i randagi sentono che il passato dei loro genitori non esiste più. Ma si accorgono anche che persino il presente in cui vivono è compromesso. Ecco quanto si sentono spaesati: senza patria e senza tempo.

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