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EFFETTO STREGA – Intervista a Maria Grazia Calandrone (Splendi come vita – Ponte alle Grazie)

A cura di Mariangela Compasso, Eleonora Rizzello, Federica Santilli (Scuola del libro), Giulia Agresti (IIS Alberti Dante di Firenze), Martina Pazzogna (IIS Sansi-Leonardi-Volta di Spoleto) e Micol Tangerini (Liceo scientifico Manfredo Fanti di Carpi).

Roma, estate del 1965. Una donna si getta nel Tevere, lasciando la figlia di pochi mesi su una panchina di Villa Borghese. Quella bimba è Maria Grazia, che verrà affidata a una coppia romana: Ione, insegnante di lettere, e Giacomo, politico e sindacalista. Solo quattro anni dopo la Madre, in preda a un timore inesplicabile, confessa alla bimba di averla adottata: «Non ha importanza, Mamma sei tu!» risponde lei. Tuttavia nell’animo di Ione qualcosa si frantuma, è come “confessare una mancanza”, un incollare su di sé la lettera scarlatta della menzogna. Inizia a maturare così un sentimento di rifiuto che l’autrice chiama Disamore, un veleno, una vertigine via via più profonda e dolorosa che Maria Grazia farà di tutto per colmare ma senza riuscirci. La bambina cresce, diventa una donna che, grazie al potere salvifico della poesia, sembra potersi riconciliare con sé stessa e con il passato, restituendo vita alla memoria. Questo romanzo è una lettera d’amore alla Madre, ed è il suo regalo per lei.

Splendi come vita è stato definito un romanzo lirico, composto da frasi essenziali, a volte lapidarie, e un lessico evocativo che lascia molto spazio al non detto. Lei è riuscita nell’arduo intento di dare alla luce una lingua nuova e inattesa, un ibrido tra prosa e poesia che, insieme a una punteggiatura ben studiata e spazi bianchi mai casuali, che raccontano quanto le parole, fanno sì che ogni lettore possa riconoscere la propria storia nella sua. Un simile effetto era contemplato nel progetto iniziale o è stato un risultato inaspettato?

È stato tutto inaspettato, a cominciare dalla scrittura di questo libro, desiderata per almeno vent’anni. Bello che sia stato definito un regalo a mia madre – perché vorrei che fosse così – a lei come emblema della maternità. Sicuramente i precedenti quarant’anni di abitudine alla poesia e a quello che insieme alla musica è il suo grande segreto, ovvero il silenzio, hanno influito sulla lingua, che è venuta in maniera spontanea. Negli ultimi libri di poesia avevo cominciato a inserire lunghi brani di prosa: nel Il giardino della gioia, uscito per Mondadori prima della pandemia, ci sono addirittura delle interviste fatte durante un viaggio in Bosnia, insieme a fatti di cronaca e stralci di articoli. Da qui la ricerca di una terza lingua ibrida.

Mi sono svegliata una mattina  ed è venuto fuori tutto in  maniera forsennata, frenetica. È stato un vero e proprio incendio, che per fortuna è durato non più di venti giorni, altrimenti mi sarei gravemente ammalata. Mi sedevo alla scrivania come se mi stessi avvicinando alla bocca di un vulcano, ma era quello che desideravo fare. Raccontare questa storia mi ha fatto capire molto, e solo in compagnia delle parole ho potuto ricordare ciò che non avevo il coraggio di rivivere:  prima di ogni cosa l’amore di mia madre, paradossalmente. Quando un rapporto conflittuale si conclude è più semplice ripensare alla parte negativa di esso senza rabbia o rancore, perché solo così ci si convince di essere andati avanti. Riportare alla memoria il paradiso perduto, è stato doloroso e le parole, che sono perfide, mi ci hanno portato.

Viviamo in una società che tende a incastrare le persone in un ruolo o un’etichetta. In questo senso quanto è stato importante per il suo lavoro liberare Ione dal ruolo di madre e riconoscerla prima di tutto come donna, anche con le sue fragilità.

È stato fondamentale. Me ne rendo conto anche con i miei figli: finché siamo figli pretendiamo che i nostri genitori siano semplicemente i portatori del bene che in quel momento ci occorre Mi sono resa conto che anche io avevo un atteggiamento simile nei confronti di mia madre, benché io sia una donna ormai più che adulta. Pensavo a mia madre come a colei che avrebbe dovuto esclusivamente amarmi, che è giusto ed è parte della natura umana, ma lei era anche altro. Aveva quarantotto anni di vita precedenti la mia esistenza, i suoi desideri, i suoi bisogni e i suoi sogni, e forse voleva che fossi io e realizzarli per lei.  È un automatismo, forse illegittimo, che quasi tutti i genitori adoperano, quello di proiettare frustrazioni e desideri sui propri figli. Si pensa che basti far scattare l’interruttore e diventare madre per far sì che scompaia tutto il resto, ma non è così. Comprendere tutto questo  ha reso mia madre ai miei occhi, come ho scritto nella quarta di copertina, ancora più amabile. Ho compreso non lo sforzo, ma il dono, quello della sua presenza.. Nonostante tutto quello che è raccontato nel libro lei c’è sempre stata.

 Una curiosità sui ringraziamenti. È risaputo che vengano pressoché ignorati dai lettori e invece spesso sono scrigno di altre storie.  e infatti in quelli  del suo libro ha raccontato l’amicizia con Sonia Bergamasco, che ha ringraziato anche nella nota finale per averla incoraggiata a non essere “reticente”. Com’è riuscita a superare questa reticenza di scrivere una storia così personale e consegnarla al grande pubblico? Splendi come vita è a tutti gli effetti una confessione molto intima, un tentativo di imprimere i ricordi, cosa l’ha spinta ad aprire quel mondo interiore e renderlo una memoria comune anche per tutti noi che leggiamo il libro?

«Il grande pubblico»…Chi se lo aspettava il grande pubblico? Ero abituata al pubblico della poesia, e il coraggio non l’ho trovato, ma quando faccio qualcosa penso a quel proverbio arabo che dice: «Butta avanti il cuore e corrigli dietro».

Ho consegnato questo libro a Ponte alle Grazie perché era la casa editrice che me lo avrebbe pubblicato prima. Io lo avrei stampato il giorno dopo,  ossessionata dall’urgenza e dalla paura del rimpianto

Però è vero che i ringraziamenti sono importanti, ed è vero che Sonia Bergamasco è stata determinante, perché  mi ero accomodata sulla prima versione del libro che si fermava agli anni Ottanta. Era quella la parte più dolorosa, nonostante prima di quegli anni avessi comunque perso mio papà.

La fragilità di mia madre ha mitigato la mia rabbia nei suoi confronti: se l’altra persona è cieca,, infierire diventa difficile. Quella parte della sua vita era dura da affrontare: i tredici anni finali della cecità, gli interventi chirurgici, quello che accadde dopo, quando era anziana. Però Sonia mi disse: «Io voglio sapere tutto e voglio che tu arrivi fino in fondo». Le voglio bene e ho grande fiducia nella pulizia del suo sguardo, Così mi sono fidata e sono andata avanti.

Le ultime pagine sono due poesie, dove torna la lingua originaria, perché veder morire una persona così cara è veramente incomprensibile e non ci sono – almeno, io non ne ho – parole diverse da quelle della poesia. Nel libro è evidente, ho uno sguardo chirurgico. Avrei potuto descrivere tutto quello che ho visto ma non sarebbe servito a niente, anzi sarebbe stata una mancanza di rispetto nei confronti di mia madre. Così è venuta fuori la poesia, che non edulcora la realtà, ma la canta, la mette in musica e le restituisce il grande silenzio: il grande mistero dell’atto finale.

Si parlava di un tentativo di imprimere ricordi. Sì, è vero che raccontare è anche un modo per ricordare quello che è stato. Poniamo il caso mi venga l’Alzheimer! Con grande sorpresa ho constatato di avere dei ricordi vivi. Le parole pronunciate oggi, anche quelle di quando ero bambina, venivano fuori come se mia mamma fosse ancora lì e io stessi raccontando. Parlando di me stessa ho scoperto una sorprendente compresenza di tutte le persone che io e lei siamo state, e di tutte le età che ho vissuto . Donare tutto questo agli altri è stato come offrire la possibilità di leggervi dentro la propria esistenza. Matteo Columbo, ufficio stampa della casa editrice, sa bene che ho avuto la nausea per una settimana dopo l’uscita del libro. Temevo di aver fatto una sciocchezza, di essere considerata un caso umano. Invece non è successo, anzi le persone mi hanno regalato le loro storie e questo è il risultato più grande che potessi sperare.

Uno dei temi centrali del libro è proprio il Disamore, termine a cui ricorre spesso per descrivere quel senso di abbandono e mancato affetto vissuto durante gran parte del rapporto con la sua madre adottiva. Nel finale però si scopre la malattia di lei, pensa che sia stata proprio questa la causa del Disamore oppure che quest’ultimo, a sua volta, sia derivato da un profondo senso di inadeguatezza?

Sì, forse è una cosa che è cresciuta su sé stessa. Mia mamma era una donna intelligente, pudica, di una riservatezza quasi eccessiva, quindi è probabile che questo processo di Disamore sia stato innescato da un equivoco tremendo. Equivoco del quale –, cosa che ho scoperto proprio con questo libro –, sono vittime moltissimi genitori adottivi: temono che i figli possano provare per loro un amore non altrettanto grande e assoluto di quello che avrebbero provato per i genitori naturali. Posso testimoniare che non è vero, e che si tratta di un pregiudizio. Se su questo equivoco si fosse discusso, se si fosse fermato questo processo che poi si è ingigantito, non ci sarebbe stata la frana.

C’è un verso in Posto di vacanza di Vittorio Sereni che dice: «[…] su un fiume di impercepiti nonnulla recanti in sé la catastrofe». Ho pensato molto a questo verso, al «nonnulla» che per me è stato la rivelazione della maternità elettiva. Dopo ci sono state le conseguenze che la maternità ha portato, il lutto per la morte del marito, di mio padre, e poi il pensionamento. Mia madre era una donna molto attiva che amava il suo lavoro di insegnante,  e ritrovarsi sempre in casa ha aggravato la sua situazione. Se il processo di cui parlavamo si fosse fermato in tempo, mia madre avrebbe avuto una vita più felice e si sarebbe resa conto di quello che aveva. Lavorando su Anne Sexton, una poetessa che toglie di mezzo qualunque equivoco romantico sulla follia, ho compreso che la follia è paura, incapacità di vedere la realtà, sofferenza inutile, ed è un grande spreco.

C’è un dettaglio nel suo libro che non poteva sfuggire all’occhio tecnico che stiamo tentando di educare come allievi della Scuola del libro, ovvero la nota dell’editore a piè di pagina, tra il titolo e la dedica. Leggiamo: «Gli a capo inattesi che si trovano talvolta nel testo sono volontà dell’autrice». Questa precisazione ci porta proprio al momento dell’editing Come ha vissuto la fase di lavorazione sul testo e com’è nato il titolo Splendi come Vita, che è un titolo meraviglioso.

Del romanzo non è stata cambiata neanche una virgola. Il correttore di bozze ha tentato di aggiungerne una e io ho pensato fosse cosa da poco, così gliel’ho concessa.. Mi sono svegliata alle tre e mezza del mattino, ho acceso il computer e gli ho scritto: «Per favore, leva quella virgola, non ci vuole». È andata proprio così.

 Nella bozza  le frasi erano tutte di seguito e dicevo che no, dovevano andare a capo. Così ho chiesto di parlarne con Vincenzo Valletto, che mi ha detto di fare come meglio credevo ma avrebbe inserito una nota dove spiegava che quegli a capo non erano errori di stampa ma volontà dell’autrice. È una cosa folle lo so,  ma è una sofferenza fisica vedere spostata una virgola. Sono abituata alla poesia e quella modifica mi rendeva insonne.

Il titolo lo devo all’insistenza di Sonia. Il romanzo si chiamava Noi due, titolo di uno dei capitoli, ma lei mi ha detto che potevo fare di meglio, e quando le ho proposto Splendi come vita ha subito accettato. Aveva ragione lei, anche in questo caso.

È stata Sonia quindi la prima lettrice?

 Sì, la prima e l’unica nella fase di lavorazione perché gli altri lettori, quindi Andrea, Giovanna e Silvia sono venuti dopo, quando il testo era compiuto. Silvia mi ha consigliato di aprire con l’articolo di giornale, e io ho capito solo dopo il perché. Non è solo l’articolo di giornale, è mia mamma che mi fa entrare nella nuova casa. Entra in scena ciò che nel libro viene raccontato. Geniale! Ha avuto una grande idea.

In effetti questo dettaglio ci ha colpito tanto che nella sinossi siamo partiti dal fatto reale, perché ci sembrava di essere più fedeli al romanzo.

Sì, il fatto reale che poi viene completamente omesso perché io ho deciso di prendere la parola nel momento in cui la parola mi viene data. Prima di essere adottata sapevo dire solo mamma ed era sufficiente forse, visto che avevo otto mesi, però ho iniziato a parlare davvero solo nel momento in cui sono entrata in casa, in questa casa.

Parliamo della sua attività in ambito politico. Nel libro racconta di aver partecipato ai movimenti di contestazione giovanile degli anni Settanta ed è tuttora un’attivista impegnata a diffondere la poesia nelle scuole e nelle carceri. Cito: «Perché la parola poetica rende visibile qualcosa che è invisibile e che unisce, dicendo del mondo come vorremmo che fosse».In che modo la poesia diventa strumento di lotta?

Fare poesia è una posizione politica. Passando a questa “falsa prosa” mi rendo conto di quanto sia nascosto il mondo della poesia, e nascondersi e lavorare duramente è sicuramente un’attitudine e  un gesto politico.  In un articolo scritto dieci anni fa per il manifesto, ho affermato che fare poesia è un’azione politica, per il suo essere fuori dal mercato.

Ma c’è di più: la poesia in realtà parla di una comunanza umana, di una lingua universale e non solo nel contenuto – ho scritto anche poesia civile –, ed è la poesia tout court a farlo. Il canto della poesia rievoca qualcosa che non conosciamo e al quale tendiamo perché evidentemente ci suggestiona e ci affratella, ed è in questo senso che ha una portata politica straordinaria. Certo anche i nazisti nei campi di concentramento erano lettori di poesia, però anche alcuni internati leggevano Dante per sopravvivere almeno spiritualmente. È vero che la poesia la si può leggere con occhio cinico o, scioccamente, come puro godimento estetico (equivoco nel quale è caduto anche Adorno quando diceva che dopo Auschwitz scrivere poesie sarebbe stato un atto di barbarie).In realtà no. No perché non significa godimento estetico, significa fissare l’occhio, lo sguardo e tutto il proprio essere nel dolore, se si fissa la gioia si è più contenti, ma se occorre fissare lo sguardo nel dolore la poesia lo fa. Ed è uno strumento potentissimo per fare questo e per cercare di trasformarlo, parafrasando Paul Celan, «nel canto al di sopra di ogni spina». In questo senso, per me è un’azione politica.

Torniamo per un attimo all’epigrafe, leggiamo «Ti accompagno a parole perché a parole sono nata da te».Quali sono state le parole che hanno caratterizzato il rapporto con sua madre Consolazione?

Sicuramente la parola compassione che è anch’essa un equivoco, perché mia madre adottiva mi ha raccontato che mia madre biologica, nella lettera  inviata all’Unità, aveva scritto di affidarmi alla compassione di tutti. Ma lei aveva scritto comprensione. Quindi compassione è una parola di Consolazione, l’ha inventata ed equivocata lei, probabilmente proiettando ciò che provava nei miei confronti.

La compassione è un sentimento meraviglioso ed è diventata la mia ossessione nella poesia. Oggi si parla di empatia, parola che a me non piace. Compassione è sentire insieme, è la forza della passione che contiene lo stare insieme. Poi c’è tutta una serie di vezzeggiativi che lei usava, e quando, come scrivo, mi chiamava Maria Grazia io tremavo e pensavo che di certo qualcosa avevo combinato. MARIA GRAZIA! Sarà pure il mio nome, ma lo sentivo imponente, per questo mia figlia si chiama Anna, si fa prima e non suona mai tremendo.

Tutta la poesia che ho scritto deriva dall’educazione che lei mi ha dato.  Era un’insegnante di lettere anche a casa, mi faceva scrivere su un quaderno bellissimo che ho ancora in cantina, dove ricopiavo a mano le poesie, facevo i disegnini, le cornicette, mentre lei ritagliava le fotografie. E poi ricopiavo tutte le parole dei poeti, quelle comprensibili per una bambina − lei mi ha portata in seconda elementare a cinque anni e mezzo − e tutte le parole del libro Cuore che mi faceva leggere la sera, nonostante fosse molto faticoso. Giocavamo anche, oltre che leggere, però c’erano molti impegni quotidiani a cui lei voleva prendessi parte. Questa educazione un po’ severa impartita mi è servita. Oggi cerco di emularla, invano, perché non mi riesce di essere così severa e imporre obblighi. Non fa per me, io sono abituata a lasciare libere le persone.

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