In attesa della terza edizione di Effetto Strega – l’appuntamento annuale in cui la Scuola del libro incontra gli scrittori della dozzina del Premio Strega, e che si svolgerà presso la libreria Giufà il prossimo 5 giugno – gli studenti del master «Il lavoro editoriale» (Martina Germani Riccardi, Silvia Seminara, Martina Ricciardi) hanno intervistato Silvia Ferreri, La madre di Eva, Neo. Edizioni
In questo libro abbiamo trovato due grandi temi: la disforia di genere e la maternità. Com’è nata l’idea di scriverlo? C’è stato un evento che ha fatto da stimolo narrativo?
C’è stato un evento che sicuramente ha fatto da stimolo principale, “primigenio”: il momento in cui sono entrata in contatto con la disforia di genere. Mi hanno parlato di una bambina che conoscevo – l’avevo vista piccola, conoscevo la sua famiglia – che stava facendo questo percorso e avrebbe affrontato la chirurgia. E quando sono venuta a saperlo ero incinta del mio primo bambino. Era quindi una situazione molto particolare, diversa: sentivo davanti a me tutta la vita e la serenità che sente una madre al primo figlio. Per questo motivo ne sono rimasta tanto colpita: sentivo fortemente questo mio momento di costruzione, di creazione di un nuovo essere umano, quindi quest’immagine della distruzione fisica mi ha addolorata, mi ha colpita cioè in senso negativo perché non potevo immaginare cosa fosse per una madre vedere questo corpo massacrato.
È probabile che le storie, quando ci arrivano, ci colpiscano anche in base al momento che stiamo vivendo: magari, se non fossi stata incinta – e in un momento di gioia, di felicità –, non mi sarebbe venuto in mente di scrivere questo libro. Credo che gli incontri fra le storie e gli scrittori facciano parte di una magia del momento.
L’idea di maternità, intesa non tanto come rapporto madre-figlia ma come creazione di un corpo (sbagliato, nel caso della protagonista), è costante in tutto il romanzo. Secondo lei si può affermare che La madre di Eva è (anche) un libro sul corpo?
No, non direi che è un libro sul corpo. Il corpo è inteso come oggetto d’amore: quindi è un libro sull’amore, sull’essere oggetto e soggetto d’amore. Il corpo in realtà è lo spazio, il luogo in cui si consuma la tragedia perché il dolore che conosciamo da essere umani è soprattutto quello fisico – la malattia, l’incidente, la paura che ai nostri cari, in questo caso ai nostri figli, succeda qualcosa che sia doloroso dal punto di vista fisico. In questo senso il corpo è oggetto d’amore ma anche di dolore. Non sarebbe stata la stessa storia se Eva invece di cambiare sesso fosse stata semplicemente una ragazza omosessuale: sarebbe mancato ovviamente questo dolore del corpo.
La madre di Eva è una storia d’amore, l’amore tra madre e figlia. Al suo interno c’è la disforia di genere, che è un elemento fondamentale, ma come spesso qualcuno ha notato, e gliene do ragione, è quasi un escamotage, un pretesto per parlare del corpo e del dolore, del rapporto tra madre e figlia e della non accettazione di qualcosa; ed è qualcosa di estremo, molto più estremo di quello che una madre può immaginare quando mette al mondo un figlio. Si può pensare alla malattia, alla morte, alla disabilità, alle malattie cromosomiche – si cerca di prevenire tutto pur di prevenire il dolore. Si fanno centomila screening pre-parto per vedere, capire, curare. Ma quello che io racconto non appartiene all’immaginario di una madre. Nessuna madre pensa, mentre è incinta, “magari nasce femmina e decide di essere maschio”. Oppure non so, forse adesso sì. Io alla seconda gravidanza avevo in testa la possibilità che qualcosa dentro l’utero potesse andare storto, ma generalmente sono altre le cose dalle quali ci si vuole proteggere. Il cambiamento di genere è l’estrema punta del cambiamento.
Chi ha curato il libro? Le va di raccontarci il suo rapporto con l’editor? C’era qualcosa che l’editor avrebbe voluto cambiare e lei ha voluto difendere?
Una volta che il libro è stato scritto, prima di qualsiasi altra cosa – prima della copertina, del marketing – viene l’editing. L’editing è la parte più importante nell’edizione di un libro, e io me ne sono accorta con La madre di Eva. Ho avuto un editor straordinario, un genio, con cui ho avuto un sacco di problemi, ovviamente, perché spingeva lì dove uno scrittore resiste. E quando succede, bisogna trovare un compromesso. Il mio editor (Angelo Biasella, ndr), però, ha un limite, ed è una cosa di cui io e lui abbiamo parlato molto. Il suo limite è non essere padre. Quindi gli mancava una parte di vita e di umanità che gli ho dovuto raccontare mentre lavoravamo al libro. Lui è bravissimo a lavorare sulla lingua, ma in questo caso l’editing è stato più un lavoro di lima, perché la struttura e la lingua sono rimasti quelli, pochissimo è cambiato. Si trattava di togliere una parola, due righe, spostare una virgola, aggiustare il tempo di un verbo. La madre di Eva ha una lingua particolare, non comune ai romanzi che siamo abituati a leggere e che appartengono alla corrente narrativa del momento. Ma visto che avevo fatto questo lungo lavoro sulla lingua, anche solo spostare una virgola o limare un aggettivo mi inquietava. Su molte cose non abbiamo avuto problemi, e io ho subito riconosciuto la sua assoluta superiorità e genialità. Su altre – i concetti più maternali e gli aspetti legati alla lingua che più avevo a cuore – abbiamo avuto qualche piccolo scontro. È abbastanza normale che un autore giovane, alla sua opera prima, e un editor bravo arrivino a dei momenti di scontro. L’editor vuol far pesare la sua esperienza, e l’autore giovane ha il desiderio di tenere quella purezza e quella vivacità della lingua che si rende conto essere una cosa sua, e non il frutto di una lavorazione. Quindi lo scontro tra noi due derivava dal fatto che avessimo piani emotivi e di vissuto diversi, e il fatto che lui tendesse ad asciugare un po’ troppo una lingua su cui avevo lavorato molto.
C’è da dire anche un’altra cosa, che non riguarda il rapporto generale tra editor e scrittore, ma il mio rapporto con il mio editor. Ho fatto l’editing di questo libro quando avevo appena partorito due gemelli – e vedete che, in qualche modo, la maternità torna sempre. Qualsiasi scrittrice avrebbe proposto di riparlarne dopo un anno: dormivo poco, ero completamente fuori dal mondo, lui non poteva immaginare cosa significa avere due gemelli neonati, allattarli. Non avevo neanche il tempo di andare a fare la spesa, figuriamoci di cominciare un editing. Ma non volevo rimandare l’uscita del libro, e quindi ho deciso di farlo. Con due bambini appena nati ero in un momento di difficoltà oggettiva ma anche emotiva, perché era come se i miei ormoni fossero su una giostra. Avere a che fare con un editor uomo, per un momento, è diventato complicato. Detto questo, il lavoro che ne è venuto fuori è fantastico, perché il libro ha preso un respiro importante e ha guadagnato una veste da romanzo che prima non aveva. Quello dell’editor è un lavoro fondamentale ma molto difficile, molto più difficile di quello dello scrittore.
Nel corso della stesura del libro, ha mai provato a dare la parola a Eva?
L’ho pensato all’inizio, era la primissima idea, prima ancora di arrivare a sviluppare quella dell’ospedale. Ma mi sono subito resa conto che non volevo farlo: per me era troppo complicato dare la voce a Eva e lasciare a lei la narrazione, quindi ho subito cambiato il punto di vista, concentrandomi su quello della madre.
Il contesto familiare e scolastico in cui si svolge la vicenda colpisce per l’apertura e la positività: le maestre di Eva, ad esempio, si dimostrano particolarmente sensibili e comprensive. Secondo lei questo rispecchia fedelmente l’Italia di oggi?
Sì, questo rispecchia sia la parte positiva che la parte negativa del nostro paese. Alla scuola materna, alle elementari, quando i bambini sono ancora piccoli, ci sono dei margini per cui queste cose ancora vengono accettate e protette; invece, quando si arriva alla scuola media cominciano a sorgere i problemi: perché i ragazzi cominciano a essere più cattivi, perché le famiglie sono un po’ più assenti rispetto, magari, ad atteggiamenti più pesanti dei ragazzi, e anche più impaurite: il diverso comincia a far paura quando cresce. Il ragazzo diverso fa più paura del bambino. Secondo me alle medie i ragazzi sono più duri, più dura è l’accettazione di chi è più debole. È alle medie che diventa difficile il rapporto tra Eva e gli altri ragazzi, mentre prima si confonde con gli altri bambini, perché possono far finta di niente e accettare quella bugia condivisa anche dagli adulti. Alle medie le differenze diventano evidenti.
Spesso si ha la percezione che l’Italia, rispetto ad altri paesi europei, dia meno valore e meno rilievo alle questioni di genere. Ad esempio, le università non hanno dipartimenti di gender studies; non riesce neanche a passare una legge anti-omofobia. Scrivendo questo libro, si è posta un obiettivo? C’è un lettore ideale che voleva raggiungere, e pensa di esserci riuscita?
No, non mi sono posta obiettivi di questo genere, perché per me il lavoro sul gender è stato un escamotage per raccontare la storia d’amore di una madre per sua figlia. Però quello di cui mi sono accorta è che c’è tanto interesse e che le poche persone che si occupano di questi temi, di queste cose all’interno delle strutture mediche, sanitarie, legali etc, sono molto preparate. Quindi in Italia c’è poco, ma c’è grande qualità nel lavoro che si fa. Grande preparazione e grande accoglienza. Io di questo sono rimasta molto colpita facendo le mie ricerche. Rispetto ai paesi del nord Europa c’è più paura, più timore, che però non è sempre una cosa sbagliata: perché andare coi piedi di piombo su certe tecniche e certe innovazioni che poi si sperimentano sulla pelle dei ragazzi non è sbagliato. La scuola italiana, magari, è più lenta, ma dà più rilievo alla clinica e allo studio di quello che succede, allo studio, negli anni, delle conseguenze. Siamo cauti e preparati.