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Intervista a Silvia Cosimini: la traduttrice che ci fa amare l’Islanda

Silvia Cosimini

Ogni volta che mi capita di tradurre una saga è come se fosse un cerchio che si chiude, un ritorno a una lingua che mi appartiene

A cura di Eleonora Capparella, allieva del master Il lavoro editoriale 2021

Silvia Cosimini è una delle più note traduttrici contemporanee dall’islandese. Nata a Montecatini Terme nel 1966, si laurea in Lingue a Firenze con una tesi in Filologia Germanica; parte poi per Reykjavík, dove consegue una laurea in Lingua e cultura islandese. La sua dedizione la porta a ottenere diversi riconoscimenti: il primo nel 2007, in cui riceve un premio da parte del Primo Ministro islandese Geir Haarde per la sua opera di mediatrice culturale; ancora nel 2011, quando le viene conferito il premio nazionale per la Traduzionedal Ministero per i Beni e le Attività Culturali; infine nel 2019, con il premio Orðstír dal Presidente della Repubblica Islandese. Sebbene tradurre e promuovere la cultura islandese sia la sua attività principale, Silvia Cosimini è anche docente all’Università di Milano.

Tra gli autori da lei tradotti ricordiamo Andri Snær Magnason, poeta e attivista ambientale, candidato alle ultime presidenziali islandesi, e Jón Kalman Stefánsson, vincitore del Premio Islandese per la Letteratura nel 2005 e candidato al Premio Nobel per la letteratura nel 2017. Di Magnason Silvia Cosimini ha tradotto “Lo scrigno del tempo” (Giunti, 2018) e “Il tempo e l’acqua” (Iperborea, 2020). Tutte le opere di Stefánsson pubblicate in Italia sono state tradotte da Silvia Cosimini e edite da Iperborea.

Jón Kalman Stefánsson

Lei ha spesso definito il suo impegno nella divulgazione della letteratura islandese come una missione e i premi che le sono stati conferiti attestano l’importanza del suo lavoro di mediatrice culturale. Partendo dalle basi, c’è qualche classico della letteratura islandese che vorrebbe assolutamente portare in Italia per la prima volta?

Silvia Cosimini. Intanto vi ringrazio molto per avermi ospitata in questi spazi. Mi fa davvero piacere, perché purtroppo il ruolo del traduttore è ancora tra quelli più sottovalutati nella cosiddetta “filiera” del libro. È vero che ho preso questo impegno come una missione: quando negli anni Novanta ho conosciuto la letteratura contemporanea islandese, all’università di Reykjavík, mi sono stupita di come in Italia non conoscessimo nessun autore e ho pensato che mi sarebbe piaciuto dare accesso a questa cultura, che aveva sicuramente qualcosa da dare ai lettori italiani. Mi piacerebbe che si traducessero alcuni autori del Novecento, soprattutto le donne: Svava Jakobsdóttir, di cui abbiamo pochissimo e che è stata invece una chiave di volta nella letteratura femminista, e Ásta Sigurðardóttir, un’altra figura straordinaria del tutto ignota da noi; e poi anche autrici meno conosciute che hanno costruito un canone in anni di grandi trasformazioni in Islanda, come Guðrún frá Lundi, che ha raccontato la nostalgia per la campagna abbandonata dalla sua generazione. Anche i romanzi di Indriði G. Þorsteinsson (il padre del famoso giallista Arnaldur Indriðason!) meriterebbero attenzione.

Nella sua lunga carriera, lei si è trovata a tradurre i testi più svariati: dalle fiabe del folklore alla divulgazione scientifica, dalle poetiche saghe familiari ai romanzi gialli. C’è uno stile che sente più affine alle sue corde? Quali sono state le sfide maggiori nel tradurre generi tanto diversi?

S.C. La mia prima esperienza di traduzione dall’islandese è stata con una saga medievale – quindi stiamo parlando di islandese antico – e credo di poter affermare che lo stile delle Íslendingasögur (saghe degli islandesi) è quello che tuttora sento più “mio”. Ogni volta che mi capita di tradurre una saga è come se fosse un cerchio che si chiude, un ritorno a una lingua che mi appartiene, quella su cui mi sono formata; anche se è lo stile più criptico e meno immediato, è comunque quello che riserva più sfide ma anche più soddisfazioni. Poi ultimamente mi è capitato di dover tradurre almeno due romanzi contemporanei ambientati nel Settecento, e devo dire che lo stile mimetico “finto-storico” mi ha stimolata moltissimo. Mi piace anche tradurre poesia, che per secoli è stato il genere letterario d’elezione in Islanda; ho appena finito una raccolta ed è stato un lavoro piuttosto impegnativo, molto più della traduzione di un romanzo; la traduzione di poesia presenta una serie di complessità che non hanno niente a che vedere con la prosa, e la sensazione, alla fine, è quella di una lingua molto più vulnerabile ed esposta rispetto a quella di un romanzo.

Volendo sbirciare “dietro le quinte” del suo lavoro, le chiedo: nelle case editrici che si occupano di traduzioni spesso in redazione viene effettuata una revisione con il testo originale a fronte. Ci può dire come avviene la revisione delle sue traduzioni? Dopo tanti anni, si è instaurata una routine di lavoro collaudata con le redazioni delle case editrici con cui collabora?

S.C. Non ho ancora trovato un redattore che conosca l’islandese, in effetti! Se il libro è già stato tradotto in altre lingue più note, la redazione viene fatta sulle altre traduzioni, e anzi, talvolta i redattori tendono a voler appiattire la lingua originale e omologarla sulle versioni inglesi, che sono di norma più editate e limate, meglio confezionate, e quindi comprensibilmente più appetibili per una casa editrice. A me non fa molto piacere, ovviamente, che una lingua così preziosa e antica si debba ricondurre ad altre più diffuse; preferisco perdere più tempo a spiegare al redattore le caratteristiche linguistiche e culturali del testo che ha di fronte, piuttosto che trovarmi in bozza delle soluzioni livellate sull’inglese “perché funzionano meglio”; solo che non sempre si lavora con redattori disponibili.

“Il tempo e l’acqua” di Andri Snær Magnason, da lei tradotto per Iperborea, ha vinto recentemente il premio Terzani. Citando testualmente dalla giuria del premio: “È senza precedenti la prova che dobbiamo affrontare: si tratta di salvare la terra. E bisogna farlo in fretta. Non possiamo sottrarci al dovere della responsabilità nei confronti del nostro pianeta e delle generazioni che lo abiteranno dopo di noi”. Possiamo dire che in questo momento storico sia quindi un libro necessario e lei ha avuto la possibilità di farlo conoscere al pubblico italiano. Quando svolge il suo lavoro di scouting, oltre che quando traduce, avverte questo tipo di responsabilità?

Andri Snær Magnason

S.C. In effetti per lingue così, diciamo, “minoritarie”, il lavoro di scouting è importante e mi rendo conto che a volte faccio inevitabilmente da filtro agli autori islandesi, quando esprimo dei giudizi sui libri che leggo in lingua originale. Ricordo di aver segnalato “Il tempo e l’acqua” alla casa editrice mentre ero in ferie, perché l’avevo intravisto pubblicizzato sui social media islandesi. Gli editori di Reykjavík non sono molto reattivi, devo dire, e bisogna sempre insistere un po’ per farsi arrivare del materiale. In qualche occasione mi è capitato di essermi entusiasmata per un romanzo e di averlo consigliato e poi, al momento di tradurlo, di essermi accorta di vari difetti che non avevo notato alla prima lettura; in questi casi ci ripenso e mi faccio prendere da scrupoli e sensi di colpa… Succede.

Nel capitolo “Le parole che non capiamo”, Magnason ipotizza che espressioni come “cambiamento climatico” o “acidificazione degli oceani” non ci facciano abbastanza paura perché non siamo ancora arrivati ad accoglierne il significato complessivo, in quanto troppo vasto e lontano dall’esperienza di tutti i giorni. Allo stesso modo, ci sono parole, brani o interi concetti che sono sì traducibili in senso letterale, ma non pienamente comprensibili nella cultura di arrivo? E in quanto traduttrice, come si pone rispetto alle parole che, come in questo caso, arrivano in anticipo rispetto ai tempi?

S.C. Trovo che in quel capitolo l’autore sia stato molto efficace, che abbia spiegato il concetto in maniera chiara e con esempi calzanti, ricavati dalla storia culturale islandese. Lo scarto tra una lingua e l’altra esiste sempre, nessuna lingua è perfettamente sovrapponibile e un traduttore è costretto a giri di parole, a termini più esplicativi, a qualche grado di interpretazione in più. Skammdegi, per esempio, che letteralmente significa “giorno breve”, contiene i mesi di buio dell’inverno, la brevità delle ore di luce, la mestizia di dover vivere in una notte prolungata… sensazioni che in area mediterranea sono del tutto assenti. Il ruolo principale di una traduzione in fondo è proprio questo, consentire l’apertura e la conoscenza di realtà e culture diverse. Termini e concetti nuovi si introducono a poco a poco, prima con una nota a piè di pagina, poi magari con una breve spiegazione incidentale; con il tempo verranno percepiti dai lettori senza problemi. È accaduta la stessa cosa con i grafemi islandesi. Quando ho cominciato a tradurre, verso la fine degli anni Novanta, molti editori erano spaventati da ð e þ, e preferivano delle traslitterazioni semplificate, perfino nei nomi degli autori in copertina. Oggi ormai molti lettori non si interrogano su questi segni strani.

Per chiudere, nella sua pagina web definisce così il suo rapporto con la lingua islandese: “Non è lallazione, non è la lingua materna o dei ricordi d’infanzia, non è mai stata la lingua che mi traghettava nel sonno; […]. Eppure, eppure – questa lingua è un pugnale, ogni volta, che arriva dritto al cuore e fa un po’ male perché non sarà mai completamente mia. […] lingua crudele dell’esclusione, lingua della sofferenza e del riscatto che viene, sempre, alla fine.” Come si è evoluto questo rapporto e come si rinnova in ogni libro che traduce?

S.C. Quando dico che per me l’islandese è una sfida, mi riferisco all’islandese parlato; non so se sia chiaro, dal pezzo che ho scritto sulla mia pagina web. C’è chi ritiene che per un traduttore sia sufficiente una conoscenza passiva della lingua da cui traduce, per me invece è sempre stato fondamentale saper parlare l’islandese. Forse per integrarmi meglio tra gli autori che traduco, forse per comprendere con tutti i sensi la cultura che veicolo, e un po’ forse anche per rassicurarli sul mediatore a cui affidano la loro letteratura. Per me è fondamentale anche tornare in Islanda ogni anno, per vivere a contatto con una lingua che cambia e vedere dal vivo come reagisce in momenti chiave, come adesso, in un periodo di grandi trasformazioni del tessuto sociale. Il mio rapporto con l’islandese è tuttora in divenire, è una lingua che mi riserva delle sacche di indagine ancora inesplorate; lo trovo un grande arricchimento.

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