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Intervista ad Andrea Pomella

Foto di Andrea Pomella

«Inizio a scrivere un nuovo romanzo solo quando sento di essere ossessionato dalla storia che voglio raccontare».

Abbiamo fatto una chiacchierata con i docenti dei corsi di scrittura e di editoria per scoprire qualcosa di più sui loro mestieri, le abitudini e i maestri che li hanno ispirati. E per sapere da loro perché frequentare un corso può essere davvero utile.

Come ti prepari alla stesura di un romanzo? Hai dei rituali, delle abitudini? Dove trovi ispirazione per le tue storie?

Inizio a scrivere un nuovo romanzo solo quando sento di essere ossessionato dalla storia che voglio raccontare, quando mi accorgo di pensarci giorno e notte, come in una forma di doloroso innamoramento. Non ho dei veri e propri rituali. Ma ho un metodo molto rigoroso, mi impongo delle scadenze, un certo numero di battute da scrivere ogni giorno, una parte da chiudere entro un tempo prestabilito. Ho bisogno di una regola, come i monaci.

Quando hai pubblicato il primo libro? È stato difficile?

La misura del danno, copertina, Andrea Pomella

Il mio esordio nella narrativa, La misura del danno (Fernandel), è stato pubblicato nel 2013. Fino ad allora per quindici anni sono andato incontro a un’infinita sequenza di rifiuti editoriali. A guardarla oggi credo che sia stata una specie di prova a cui ho sottoposto il mio spirito tenace, ma anche un modo per arrivare nel mondo dei libri con il giusto disinganno.

Che consiglio daresti a chi vuole iniziare a scrivere un romanzo?

Di solito quando qualcuno mi dice che vuole scrivere un romanzo gli pongo due semplici domande: “Quello che hai in mente è il romanzo che vorresti leggere stasera prima di qualsiasi altra cosa? E se sì, sei assolutamente convinto di saperlo fare?”.

Quali sono i tuoi maestri di scrittura, i tuoi punti di riferimento?

I miei maestri cambiano di volta in volta in base ai libri che scrivo. Per ogni libro ho l’abitudine di scegliere una sorta di romanzo-guida che tengo poi sul tavolo come una specie di talismano per tutta la durata del lavoro. Non si tratta quasi mai di titoli che hanno a che fare con i temi che sto affrontando o con lo stile che voglio usare, li scelgo sulla base di una ragione misteriosa, una sfumatura di colore che sento tra le pagine, una luce particolare di cui mi voglio appropriare.

All’inizio della tua carriera hai scritto monografie e saggi. Quando e perché hai scelto di passare all’autobiografia? C’è stato un motivo scatenante?

I colpevoli, Andrea Pomella, copertina

Il passaggio all’autobiografia è avvenuto perché mi sono accorto che nel mio passato e nel mio presente c’erano delle storie che meritavano di essere raccontate. E non perché io abbia vissuto chissà quale vita, ma perché a loro modo riguardavano temi universali: la giovinezza, la malattia, il perdono. La scrittura dell’“io” è in realtà una scrittura del “noi”. Se non avviene questo scarto, questo passaggio dall’io al noi, nessuna scrittura autobiografica ha motivo di esistere.

Gli ultimi anni ci hanno regalato libri autobiografici bellissimi, e i tuoi fanno parte senz’altro di questa schiera. Secondo te perché il genere autobiografico sta avendo tanto successo?

David Shields, Fame di Realtà, copertina

Credo che sia più un discorso collegato a quella che David Shields in un importante saggio-manifesto del 2010 chiamava “fame di realtà”. Le narrazioni contemporanee, tutte, non solo quelle legate alla pagina scritta, cercano un approccio quasi documentaristico al racconto. Forse questo periodo della storia esige di essere raccontato così.

Perché pensi sia utile frequentare un corso di scrittura? E perché proprio il tuo?

Ciò di cui mi sono reso conto insegnando nei corsi di scrittura è che molti aspiranti autori, pur dotati di talento, mancano della consapevolezza di avere a disposizione alcuni strumenti essenziali, strumenti che possono permettere loro di fare un importante salto di qualità. Si tratta di un approccio, più che alla scrittura, vorrei dire alla vita, di una postura – per così dire – che si deve riflettere sulla pagina, ma che prima ancora deve guidare lo sguardo. La differenza non è tanto nella qualità delle cose che osserviamo, ma in COME le osserviamo. È da lì che poi nasce il modo giusto per raccontarle.

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