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Intervista Francesco Pacifico

Foto di Francesco Pacifico

Abbiamo fatto una chiacchierata con i docenti dei corsi di scrittura e di editoria per scoprire qualcosa di più sui loro mestieri, le abitudini e i maestri che li hanno ispirati. E per sapere da loro perché frequentare un corso può essere davvero utile. 

Come ti prepari alla stesura di un romanzo? Hai dei rituali, delle abitudini? Dove trovi ispirazione per le tue storie?

Mi preparo sbagliando un altro romanzo, che poi si trasforma in quello vero. Inizio a scrivere una storia, non ci riesco, capisco perché non ci riesco, comincio a trasformarla in qualcos’altro. Il mio rituale principale è cercare di liberare molte mattinate, o anche giornate intere, da sprecare completamente camminando o leggendo o incontrando gente a caso nel quartiere, per entrare nello spirito di completa perdita di tempo necessario. Per le storie di solito ho sempre trovato ispirazione nei miei limiti, sia quelli dell’indole sia quelli procurati dall’educazione che ho ricevuto.

Quando hai pubblicato il primo libro? È stata dura scriverlo e poi trovare un editore disposto a pubblicarlo?

Copertina di Il caso vittorio di Francesco Pacifico

Ho una storia molto felice. Scrivo da quando ho sedici anni. Ho sempre saputo di non voler vivere, avere una vita, organizzarmi una vita. Non ho fatto niente per tutta l’adolescenza, poi dopo essermi laureato, nel periodo in cui mio padre non mi parlava perché aveva capito che non avevo intenzione di combinare niente ho finito un romanzo e l’ho dato all’unico scrittore pubblicato che avevo a portata di mano: Christian Raimo, che era un amico di un mio amico. Gli sono andato sotto senza pudore e gli ho detto che dovevamo parlare. Lui ha portato il mio manoscritto a minimum fax, che l’ha pubblicato.

Che consiglio daresti a chi vuole iniziare a scrivere un romanzo?

Che domanda strana. Secondo me l’iniziare è puro spreco, non riesco a vederlo come un momento importante, performativo. La cosa interessante è finire un romanzo. Ma non si passa dall’inizio alla fine. In mezzo ci sono i tanti momenti in cui fa schifo e lo vuoi abbandonare. Secondo me chi sta a disagio in quei momenti non dovrebbe scrivere. Forse se devo mettere questa cosa in forma di consiglio la cosa da dire è che se preferisci l’angoscia di un libro in fase schifosa alla vita puoi andare avanti con il tuo libro senza rimpianti. Per me è così. È una scusa per conservare lo schifo che mi fa l’idea di avere una vita dentro una società, con tutti i suoi significati acquisiti inutili e dannosi.

Quali sono i tuoi maestri di scrittura, i tuoi punti di riferimento?

Ho amici scrittori e ho tanti maestri. Ruotano negli anni. Nell’ultimo anno sono stati   Gombrowicz, Dürrenmatt, Woolf, DeLillo, Borges. 

Tra le tante cose che fai, hai tradotto più di venti libri dall’inglese, hai pubblicato quattro romanzi, sei stato redattore di blog (minimaetmoralia.it), caporedattore di una rivista letteraria (Nuovi Argomenti) e giornalista (Repubblica). Da qualche anno hai anche un podcast (Archivio Pacifico), in cui dichiari di essere ossessionato dalle interviste lunghe, rilassate e intime. Fare lo scrittore (o il traduttore) non ti bastava?

Il mio lavoro principale, e preferito, è fare iltascabile.com. Il motivo per cui faccio tutte queste cose è che ho bisogno di soldi. Negli anni sono riuscito a trovare soldi facendo cose che mi piacciono molto: traduco libri più belli, scrivo di cose che mi interessano. Mi diverte trovare lavoretti nell’editoria, mi sembra come se fossimo tutti dei piccoli truffatori che si mettono d’accordo per tentare dei colpi in banca che a volte riescono a volte no.

Perché pensi sia utile frequentare un corso di scrittura? E perché proprio il tuo?

Due cose sono molto utili se si vuole scrivere. Una è saper stare soli, l’altra è conoscere altri scrittori per imparare i trucchi e l’arte di vivere e per parlare di libri. I corsi non servono a tutti, ma sono posti dove si può imparare a stare soli, e dove si incontrano scrittori e ci si può togliere tante idee sbagliate dalla testa (tra cui quella di fare la seconda metà dell’ultima domanda). 

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