fbpx
Cerca

Leggere d’arte. Dieci pillole letterarie e storico-artistiche

Libri_arte

di Manuela Altruda e Bianca Martino, allieve del master Il lavoro editoriale 2021

L’arte genera la parola e la parola genera l’immagine

L’ancestrale legame che unisce arte e letteratura è ormai radicato nell’immaginario comune sin da quando Omero descrisse nella sua Iliade il «brillante, triplo, scintillante» scudo di Achille, e otto secoli dopo Virgilio fece lo stesso con quello di Enea nel poema eponimo dell’eroe. Ma l’ekphrasis è solo uno dei tanti modi di scrutare la straordinaria corrispondenza di intenti tra arte e letteratura, due vie diverse ma complementari di osservare la realtà e di tentare di restituirne i frammenti. Non è affatto un caso se il protagonista de Le ripetizioni (Marsilio 2021), ultimo romanzo di Giulio Mozzi, parla di una delle opere del Gas, suo amico pittore, come «un quadro che fa un discorso, per così dire, un quadro narrativo». Basti pensare ai grandi cicli di affreschi che decorano le cappelle gentilizie della Firenze rinascimentale per rendersi conto che l’arte è da sempre strumento di divulgazione, e che quei riquadri pittorici non sono altro che pagine illustrate di una narrazione, realizzate con l’unico scopo di incantare e smuovere gli animi di chi ancora oggi le osserva. L’intento narrativo che è alla base di certe opere trova un suo corrispettivo in quella letteratura che prova a raccontare la storia dell’arte, a indagare la formazione degli artisti, la genesi di un capolavoro o le vicissitudini cui gli eventi storici hanno costretto certi manufatti.

Molti autori e autrici, ad esempio, sono rimasti affascinati dalla figura di Artemisia Gentileschi, ma in pochi hanno saputo restituirne un’immagine esatta come ha fatto Anna Banti in Artemisia (SE 2015; prima edizione: Sansoni 1947). Scrittrice raffinata e conoscitrice d’arte, Banti non solo ha narrato la carriera della prima pittrice ammessa alla prestigiosa Accademia del disegno di Firenze, grazie al beneplacito del Granduca di Toscana Cosimo de’ Medici, ma ha dato voce a «una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi». Quella di Artemisia fu una vita segnata e travagliata, e le sue opere parlano in maniera chiara di sofferenza e di coraggio. È così che Giuditta divenne l’eroina biblica prediletta, simbolo di rivalsa verso quello stupro subito per mano di Agostino Tassi, pittore e collega del padre di Artemisia, Orazio. Tra le pagine di Lettere precedute da Atti di un processo per stupro (Abscondita 2020) il lettore può toccare con mano la brutalità di quel processo in cui l’artista non fu mai creduta ma, anzi, guardata con sospetto perché si dilettava in «esercizio di pittura». Forse nessuno al di fuori di Anna Banti avrebbe potuto comprendere e narrare la vita di questa straordinaria pittrice, perché nessuno ha indagato la condizione delle artiste come lei ha fatto in Quando anche le donne si misero a dipingere (Abscondita 2011, prima edizione: La Tartaruga edizioni 1982).

Tra le più grandi fonti di ispirazione per la letteratura c’è di certo uno dei momenti più prolifici della storia dell’arte, ovvero quello in cui nacque e si sviluppò il movimento impressionista. Ha avuto grande successo, ad esempio, La donna col vestito verde di Stephanie Cowell, tradotto per Beat da Chiara Brovelli e pubblicato in Italia nel 2010. Capita di domandarsi quanto l’ispirazione di certi artisti sia derivata dalla passione forte e irrazionale per una donna. In molti ricorderanno il dipinto di Johannes Vermeer intitolato “Ragazza col turbante”, simbolo del periodo d’oro olandese: la suggestiva leggenda che si nasconde dietro quest’opera è stata più volte narrata, ma è con particolare successo che lo ha fatto Tracy Chevalier in La ragazza con l’orecchino di perla ( Neri Pozza 2000). Così come quella fanciulla divenne musa di Vermeer, in cerca di una nuova linfa, anche nel libro di Cowell si parla di una donna, Camille Doncieux, che avrà un ruolo predominante nella vita privata ed artistica del fondatore dell’Impressionismo, Claude Monet. La narrazione, suddivisa in sette parti, che separa il prologo, gli interludi e l’epilogo del romanzo, racconta, o meglio tratteggia, con dovuta perizia le vicende umane del pittore, ed in particolare la sua storia d’amore con Camille. In una Parigi che si prepara a diventare la città più elegante e sofisticata d’Europa, grazie alle straordinarie architetture di Haussmann, approda il giovane Monet alla ricerca della fama e del riconoscimento della sua arte.

Manet

Camille e Claude si incontrano per la prima volta in una libreria di rue Dante, un nome che evoca subito un parallelismo con Dante e Beatrice. Tra i due si accende la passione, e cresce un amore incontenibile che li legherà sin da subito. Così Camille rinuncia ai suoi privilegi, e al suo matrimonio combinato, per seguire Claude nella sua vita bohémienne e diventarne la musa. In quella che Susan Vreeland ha definito «una storia toccante, magnificamente scritta, straordinariamente avvincente e, soprattutto, vera», Cowell è stata capace non solo di ricreare un’immagine più che verosimile della storia d’amore tra i due amanti, ma soprattutto di dare un meraviglioso aperçu della vita che gran parte degli artisti conducevano in quegli anni, in cui era ancora così difficile vivere solo della propria arte. I personaggi che gravitavano attorno a Monet, infatti, non erano da meno. Basti pensare a Renoir, Pissarro, Manet: tutti avevano lo stesso scopo, quello di far trionfare l’arte, libera dai dettami prestabiliti in passato. Questo libro offre esattamente questo: un’impressione dei sentimenti, della passione, del dolore, e del dramma di Claude e Camille, ma soprattutto dell’intero gruppo impressionista, così come ha raccontato Sue Roe nel suo meraviglioso saggio Impressionisti – Biografia di un gruppo (Laterza 2009).

Chagall

Tra le autrici più note nell’ambito della narrativa d’ispirazione storico-artistica c’è di certo la già citata Susan Vreeland. L’autrice americana ci conduce nel sud della Francia in un turbine di colori ed emozioni grazie a uno dei suoi romanzi più noti, ovvero La lista di Lisette, edito da Neri Pozza nel 2014, con la traduzione di Simona Fefè. Nel 1937 inizia l’avventura di Lisette e André che vivono nella loro amata Parigi, dove coltivano sogni e desideri, fino a quando, con un astuto stratagemma, il nonno di lui, Pascal, riesce a farli trasferire nel villaggio provenzale di Roussillon. Il vero motivo di quello spostamento improvviso è una serie di dipinti, che racchiudono in sé storie di vita e d’amore, e che compongo “la lista” di Pascal. Quel tesoro nascosto include sette quadri di alcuni tra i più grandi pittori del tempo come Chagall – a questo proposito di notevole interesse l’autobiografia dell’artista dal titolo La mia vita, Abscondita 1998 – e Cezanne, che devono essere protetti dalle nuove campagne culturali naziste di Goering e Goebbels. Lisette diventerà, con un po’ di aiuto, l’angelo custode di quei preziosi manufatti, difendendoli a qualsiasi costo. La pittura diviene il filo conduttore nelle vicende della coppia, dimostrando come l’arte possa combattere l’oscurità del nazismo. A metà strada tra il romanzo storico e il painting fiction, la scrittura di Vreeland appare come una densa pennellata che disegna un arco temporale in cui i personaggi si muovono con l’unico scopo di salvaguardare la purezza dell’arte e nobilitare, così, il proprio spirito.

Klimt

È invece Laurie Lico Albanese a raccontare le vicende del meraviglioso “Ritratto di Adele Bloch-Bauer”, tra le opere più note di Gustav Klimt. La bellezza rubata è il primo romanzo arrivato in Italia della scrittrice e giornalista americana, tradotto per Einaudi da Maria Baiocchi. La giovane Adele Bloch-Bauer, appartenente a una ricca famiglia ebrea della Vienna di inizio Novecento, fu musa e ossessione dell’artista, come traspare anche dalle sue Lettere e testimonianze (Abscondita 2005). Albanese ripercorre nascita e destino del celebre ritratto aureo di Adele, trafugato dai nazisti insieme a tutti gli averi della sua facoltosa famiglia. Solo nel 2006 Maria Altmann, nipote di Adele sopravvissuta all’Olocausto grazie alla fuga in America, riesce a rivendicare la proprietà del ritratto dell’amata zia e di altre quattro opere di Klimt. La battaglia legale e lo scoppio di un vero e proprio caso diplomatico tra Austria e Stati Uniti sono stati ben resi anche nella trasposizione cinematografica “The woman in Gold”, film del 2015 con la regia di Simon Curtis.

Kahlo

¡Viva la vida! (Feltrinelli 2010), infine, è il meraviglioso monologo con il quale Pino Cacucci dà voce ai sentimenti dell’inafferrabile anima di Frida Kahlo. L’autore racconta della frustrazione come conseguenza inevitabile della reclusione cui l’artista fu costretta, a seguito delle molteplici fratture riportate nel drammatico incidente in cui fu coinvolto l’autobus dove la giovane Frida viaggiava all’uscita di scuola. «Io non sono malata. Sono a pezzi. Io non ho narrato il dolore dipingendo l’universo di me stessa, perché il dolore non si può raccontare», scrive Cacucci, restituendo quell’ambiguità della pittura di Frida, che è insieme salvifica e distruttiva. In meno di cento pagine il lettore riesce a percepire il fermento sociale e politico del Messico di quegli anni, l’amore straziante per Diego Rivera, la fame di colori e di vita di cui le tele della pittrice sono impregnate, così come le parole delle sue Lettere appassionate (Abscondita 2002). In più Julie Taymor è riuscita a rendere tutto questo, in maniera impeccabile, nel suo film del 2002 “Frida”, le cui musiche sono la perfetta colonna sonora per leggere l’opera di Cacucci.

Sembra doveroso tirare le fila del discorso per concludere questo breve articolo che vede come protagoniste indiscusse l’arte e la letteratura: da sempre legate in una relazione complessa, talvolta l’una ha prevalso sull’altra per poi riaffiancarsi. Dalla celebre affermazione di Orazio nell’Epistola ai Pisoni, «Ut pictura poesis», si deduce come il destino di queste due arti sia quello di essere gemelle in un eterno parallelismo. Entrambe condividono un’attitudine comune: cogliere le sfumature, le tinte della vita attraverso lo specchio dell’opera stessa per un coinvolgimento nel reale. Se già Plutarco aveva affermato nei Moralia che la poesia è una pittura parlante e la pittura è una poesia muta, nel corso del tempo questa considerazione ha assunto un’altra forma.

Come accennato prima, le due arti si sono viste rivali negli anni, per poi essere finalmente inquadrate in maniera individuale: paragonate sì, ma non confuse o in competizione. Nasce così un nuovo parallelismo tra scrittore e pittore. La letteratura nasce nell’istante in cui si percepisce un gesto mimetico simile a quello della pittura. Sarà il Rinascimento a collocare l’opera d’arte nell’ambito della rappresentazione, di modo che la pittura, per la sua abilità a catturare il reale, diventi un modello per la letteratura. Tra gli scrittori che hanno deciso di esprimere la loro ammirazione per le opere pittoriche, diventando così critici anche dell’arte, troviamo Rainer Maria Rilke che omaggia Paul Cézanne, o André Breton che affianca una serie di poesie alle opere di Joan Mirò. Lo scrittore di fronte all’opera d’arte si nutre di ciò che vede e parla a sé stesso, secondo quell’estetica moderna che vede la pittura come fonte d’ispirazione.

La produzione letteraria delle case editrici, soprattutto in età contemporanea, parte da un presupposto più chiaro: l’arte e la letteratura hanno origine da uno stesso gesto artistico, quello di descrivere e far vivere ai lettori/spettatori emozioni vivide e forti. Sembra dunque evidente che questo distacco si perde per giungere ad un dialogo aperto e in continua evoluzione tra le due arti, l’una non può essere pensata senza l’altra. L’arte genera la parola e la parola genera l’immagine.

Altri articoli

Facebook

[feed_them_social cpt_id=14776]

twitter

[feed_them_social cpt_id=14756]

Il nostro instagram

[feed_them_social cpt_id=14058]