di Ilaria Massimi allieva dell’edizione 2016 del master Il lavoro editoriale
La cetologia non mi diverte.
E di racconti e romanzi sul mare ne ho letti veramente pochi.
Nella libreria di famiglia ci sono circa tre copie di Moby Dick. È ovvio ma non scontato che io ricordi perfettamente dove sia collocata ogni singola copia, incastrata sempre tra altri due titoli –puntualmente di letteratura francese – che invece sono spesso la mia prima scelta.
Da sempre considerati libri “scenografia”, le tre copie sono tre isole poco distanti l’una dall’altra, e possono essere avvistate nelle vecchie fotografie di quando ero bambina – non essendo mai state spostate – scatti in cui assumo pose più o meno imbarazzanti davanti alla raccolta dei libri di mio nonno.
È successo per caso proprio qualche giorno fa, durante la lezione di traduzione. Dopo una lunga navigazione tra gli scogli dei testi di Francis Scott Fitzgerald e James Joyce, il docente ha pensato bene di proporci come esempio la “fossa delle Marianne della traduzione”: il testo di Moby Dick – facendo insinuare, all’inizio distrattamente, la mia curiosità tra le pagine di questo “cetaceo” della letteratura americana. La sua analisi del testo è stata lineare, profonda e calma, ponendo particolare attenzione a tutti quei false friends, a quelle spinose difficoltà a cui il traduttore, come un un pescatore esperto, deve sapere tirare su dal testo e ributtare poi in acqua – come un gioco con la Natura liquida (del linguaggio) e per il semplice piacere di cogliere le diverse sfumature e di apprezzarle da vicino, spinto da una teoria o dall’altra, dal proprio senso musicale e da tutta un’estetica della parola.
Ho studiato traduzione, e posso quindi dire di non essere proprio alle prime armi con lemmi, sinonimi e contrari, ma è stato come pescare per la prima volta.
Insomma, non si trattava della solita lezione accademica, ma era quasi come uno sbirciare nei secchielli degli altri – i miei compagni di classe – per vedere quello che erano riusciti a catturare – e insomma, tutta la classe ne ha poi risentito, che alla fine si ha avuto la sensazione di un continuo lanciare lenze per tirare su calchi semantici, adattamenti, compensazioni e perifrasi.
Il docente in questione è Luca Briasco, traduttore per Einaudi; ma ce ne sono stati altri come Andreina Lombardi Bom e Martina Testa a portarci spesso al largo, raccontandoci – come succede con le storie del mare – aneddoti del mestiere, avversità, frustrazioni, vittorie e spiragli di luce.
Quello che mi hanno lasciato – oltre a un grande mucchio di carta su cui lavorare – è stato come un sedersi sul pontile e confrontarsi, con quell’umiltà e quella predisposizione all’aiuto che è tipica della gente di mare.
Ho studiato traduzione, frequento la Scuola del Libro, di parole ne ho viste tante in giro, sempre più letteratura francese che americana, e da qualche giorno leggo Moby Dick: procedo lenta, non lo nego, ma sto imparando a nuotare.