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PROGETTO EFFETTO STREGA: INTERVISTA A ELVIO CARRIERI

Grazie alla collaborazione tra la Scuola del libro, Fondazione Bellonci e Biblioteche di Roma, le studentesse e gli studenti del masterIl lavoro editoriale2025 hanno avuto, come ogni anno, l’occasione privilegiata di leggere e di intervistare i/le dodici candidati/e del Premio Strega, e di avere un voto collettivo per decretare la cinquina.

Francesca Ciucci Giuliani e Fiorelena Chiarello intervistano lo scrittore Elvio Carrieri candidato al Premio Strega con Poveri a noi.

Uno dei temi centrali del suo romanzo è il conflitto emotivo legato all’amore e all’odio per Bari, la sua città. In particolare, lei la descrive come una «città che ha distrutto sé stessa». C’è un momento, un evento o una riflessione personale che l’ha spinta ad affrontare questo tema? E come si inserisce questa visione nell’evoluzione della trama e dei suoi personaggi?

Ciò che è accaduto a Bari, la distruzione della storia della borghesia ovvero la distruzione del centro murattiano, riflette la colpa che Libero prova nei confronti di Plinio, la colpa che il cittadino non sa di provare nei confronti della città. Mi è venuto naturale inserire una traccia storica che solo a posteriori ho scoperto parallela alla traccia individuale del romanzo: colpa singola e colpa collettiva. Tutto viene dal camminare per la mia città, dalle sensazioni ambivalenti che mi suscita ancora via Sparano, da un voler cercare, affondare nella storia e dalle risposte che ho avuto da mio nonno.

La struttura del suo libro è particolarmente interessante: c’è un arco temporale che copre vent’anni e ogni capitolo esplora una tematica specifica. Qual è stata la motivazione dietro questa scelta narrativa e strutturale? 

Come in tutto il romanzo, ogni scelta è dettata dalla lingua. Il criterio linguistico in questo caso mi ha portato ad associare ogni capitolo a una parola che ne riassumeva il significato, chiaramente una parola in dialetto barese, come sottotitolo a un titolo in italiano. Primo capitolo: Lottatori e contemplatori, trmon. Questo accade nove volte, nove parole per nove capitoli, in una continua “rifigurazione” da parte di Libero delle sue azioni passate presenti e future.

La sua collaborazione con la casa editrice Ventanas è stata un passaggio cruciale per la pubblicazione di Poveri a noi. Potrebbe raccontarci com’è nata questa sinergia e in che modo è stato accompagnato durante il processo creativo? 

È stato un salto nel vuoto ad occhi chiusi architettato dallo scrittore Francesco Forlani, che ci ha messi in contatto dopo avermi commissionato la scrittura di Poveri a noi. Laura Putti, la mia editrice, ha deciso di pubblicare il romanzo di un diciannovenne esordiente scritto in otto giorni. Questo dice molto dell’audacia di chi mi pubblica, il che mi rende molto orgoglioso. 

Le tempistiche così ridotte come hanno influenzato il processo creativo, se l’hanno fatto? Da quale input iniziale ha costruito la trama? 

Il breve tempo a disposizione mi ha salvato dalla mia attitudine iper correttiva e dalla nevrosi della riscrittura eccessivamente intellettuale che non mi tolgo ancora di dosso. Avevano uno scopo ben preciso, quegli otto giorni. Non lo rifarò mai più ma non poteva davvero andare in altro modo. La trama è nata la notte stessa della commissione e non si è conclusa fino a poche ore prima della consegna.

Libero è un professore di lettere e insegna in un carcere. Quale ruolo attribuisce all’insegnamento e alla cultura in questo contesto? Inoltre, attraverso le lezioni che Libero tiene ai detenuti emergono contraddizioni e tensioni fortissime. Cosa voleva mettere in luce del rapporto tra educazione e reclusione? 

Sarebbe molto facile cadere nel tranello da Attimo fuggente, la cultura che salverà il mondo, il professore eroe e insomma tutto ciò a cui ci siamo abituati. Libero svolge funzione opposta: va in carcere per odio nei confronti dei ragazzi, insegna per vanitas, convinto di non poter e non voler aiutare nessuno. Il rapporto che si sviluppa tra lui e Niko è una situazione collaterale, un accidente unico in tutto il libro, primo e solo momento in cui la letteratura che Libero insegna si “libera” dalle sovrastrutture e diventa contatto umano. A congiungere i due sono dei versi leopardiani, non a caso quelli più duri da digerire come poesia, quelli che non piacquero a Benedetto Croce. 

Il carcere nel romanzo è anche un luogo che contiene diversi linguaggi: quello burocratico, quello dell’istituzione, e quello della letteratura. In che modo questi si scontrano o convivono tra loro?

Ogni registro si mescola nella parlata di Libero, nel suo delirio ossessivo che lo porta a raccontarsi, nelle sue interlocuzioni con i vari personaggi. In questo il mio maestro è Gadda, insieme a Petronio. Il pastiche in Poveri insomma è riuscito se non è diventato pasticcio, come mi auguro. 

Nel percorso di crescita di Libero un elemento importante è quello del rapporto col padre, assenza ingombrante e mai del tutto risolta: dopo un’adolescenza passata a sopportarne le bugie e la mancanza, Libero, vedendolo per la prima volta come persona più che come padre, riesce alla fine a perdonarlo. Cosa rappresenta per lei il padre di Libero? Un simbolo, una ferita, un’ossessione? Quanto pesa questa eredità familiare nel suo percorso?

Il padre di Libero è un altro tranello in cui il lettore non deve cascare, o se ci casca deve poi essere abbastanza acuto da smascherarlo: non si tratta dell’ennesima ripetizione “a tesi” della dinamica figlio abbandonato/padre assente, ma dello smascheramento di quest’ultima nella narrazione dello stesso protagonista abbandonato, che ne esce sconfitto, inevitabilmente. Spero di essere quanto più lontano possibile da Libero e dalla sua storia familiare.

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