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IN DIALOGO CON GIULIA DELLA CIOPPA, AUTRICE DI VENTRE: TRA ESERCIZI DI EDITING E DI LIBERTÀ

ventre di giulia della cioppa

di Clotilde Manno

A Natale ho letto il libro di esordio di Giulia Della Cioppa, Ventre, edito Alterego. È capitato tra le mie mani per la prima volta alla fiera del libro di Roma, Più libri più liberi, dopo che lo avevo visto girare un po’ su Instagram.

Ero curiosa perché avevo conosciuto tempo prima la casa editrice e ne ero rimasta piacevolmente stupita. Inoltre, il profilo (non Instagram) di Giulia mi incuriosiva altrettanto. Non so per quale motivo, mi sembrava una persona con qualcosa da raccontare. Così, quando l’editor della casa editrice con cui collaboravo a quei tempi mi ha raccontato di aver letto in anteprima le bozze del suo romanzo, ne ho approfittato per avere un contatto diretto con lei.

Prima, però, va seguito un ordine specifico nel mio racconto: la storia di Ventre è quella di Margherita che, ventenne – come si legge fin dall’incipit – «si è uccisa il giorno del suo compleanno senza riuscirci». Dal suo ingresso in ospedale, quando finisce in coma, inizia il racconto in prima persona di tutto ciò che la circonda. Margherita riesce ancora a percepire le persone intorno a sé e il suo corpo si divide tra la perenne presenza di sua madre e le pratiche a tratti sadiche di Bianca, la sua infermiera.

Questo è un romanzo sulla cura e sui silenzi. Su quanto sia difficile sentirsi figli e quanto, inspiegabilmente, sia facile sentirsi guardati e compresi da uno sconosciuto.

Quando apro la videochiamata su Zoom – impresa ardua per me, grande boomer, accompagnata dall’enorme pazienza e anche da un po’ di divertimento da parte di Giulia – mi ritrovo davanti una ragazza giovanissima, nella cameretta di casa sua a Ostiense (un quartiere di Roma), che mi chiede per prima cosa: «Posso fumare, vero?».

Le dico di sì, anzi, la ringrazio per aver fin da subito abbattuto quella barriera di imbarazzo che, quando chiacchiero con qualche autore, temo sempre possa incombere su di me.

Inizio così a girarmi una sigaretta anche io.

Le racconto di quando l’ho vista alla fiera a Roma e le ho chiesto un autografo sul libro. Di come mi sia piaciuta la sua presentazione e, un po’ a disagio, le confesso di aver utilizzato una delle sue frasi come incipit della mia tesi di laurea sull’autofiction.

Si crea subito un feeling tra noi e inizio con le domande: le chiedo come nasce Ventre e qual è stato il suo approccio alla scrittura.

Mi dice: «In realtà, il mio primissimo esordio è stato con i racconti. Sono stati pubblicati su diverse riviste. Ho svolto anche un breve periodo da giornalista per delle testate romane». Poi aggiunge: «Ho incominciato a scrivere questa storia ormai più di due anni fa. Ero in contatto con l’editore di Alterego. Lui sapeva che stavo scrivendo e mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere leggere il manoscritto. Quando ho finito di scrivere, lui ha scelto di pubblicarmi. Abbiamo cominciato così».

Mi incuriosisco ancora di più e le chiedo del suo primissimo approccio al mondo editoriale e al lavoro di editing che hanno fatto sul testo.

«È stato un lavoro in realtà lungo», mi risponde, «perché da quando ho firmato il contratto a quando poi è uscito il libro è passato più di un anno e in questo anno ho rimesso mano al testo un’infinità di volte e avrei potuto continuare a farlo. Anche adesso lo scriverei in un altro modo, lo so già. Però so anche che, come dire, le storie sono figlie del tempo e che, quindi, quella storia è il risultato di ciò che avevo vissuto fino a quel momento e della sua rielaborazione».

Mi racconta della paura che provava con l’avvicinarsi dell’uscita del libro e del pensiero di tirarsi indietro fino all’ultimo momento. Di come in redazione l’abbiano spinta a continuare e andare oltre quel timore che – soprattutto per un esordiente – è più che comprensibile, quasi necessario.

«Quindi ho dovuto fare pace col fatto che Ventre fosse l’inizio di un percorso anche in questo mondo. E ho iniziato a pensare che potevo scrivere davvero, perché qualcuno mi legittimava a farlo. Il fatto che stessero dando valore al mio testo mi permetteva di pensare che tutto avesse realmente un senso. Prima, invece, ce l’aveva per me e basta».

Definisce quel periodo come stancante ma anche come una forte iniezione di fiducia, enorme. Mi spiega che quando si scrive – o meglio, quando lo fa lei – si ha solo il proprio giudizio di lettore che, per quanto possa essere affidabile, non lo è mai fino in fondo. E quando si arriva a ottenere il sostegno della casa editrice, allora si inizia a credere che tutto sia possibile.

«Come definiresti», le chiedo, «la tua esperienza di editing?».

«Era la mia prima vera esperienza di lavoro sul testo. Avevo fatto solo un po’ di editing sui racconti. Prima di tutto io e l’editor ci siamo presi del tempo per conoscerci meglio. E, solo dopo aver instaurato un rapporto di amicizia, abbiamo iniziato a lavorare sul libro».

Lui ha avuto un approccio personale, come lo definisce Giulia, nel senso che insieme non si sono limitati a riconoscere i punti di forza e di debolezza della storia ma hanno lavorato per scovare eventuali fuochi da sviluppare. È come se la presenza del suo editor le avesse permesso di leggere e notare con maggiore consapevolezza quello che faceva con la lingua e con la scrittura.

«Io, come dire, scrivevo in maniera inconsapevole e, secondo lui, questo mio taglio poteva rivelarsi utile, anche se parlare di utilità non mi piace molto».

Poi le chiedo se l’aver pubblicato con una casa editrice piccola e indipendente abbia contribuito a metterla a suo agio in questo percorso. La fiducia di cui parla mi sembra un tema interessante da esplorare.

«La figura dell’editor è una figura fondamentale per varie ragioni. La prima è legata all’aspetto critico della storia. Quando la vivi dall’interno e c’è un coinvolgimento così profondo, è difficile riuscire a fare tutto ciò, soprattutto in un momento di esordio come era il mio, senza alcun parametro critico se non il mio gusto. Avevo bisogno di una persona che un po’ mi guidasse. Andavo lì a dire: “Boh, sto facendo nel modo giusto?”. Io mi sono fidata di lui. E questo è stato fondamentale. Probabilmente se avessi sempre, come dire, avuto delle riserve rispetto a quello che mi diceva, il lavoro sarebbe stato molto più difficile».

Parliamo di molto e molto altro ancora: di quanto sia stato necessario per lei indagare la figura della madre, il significato di cura e gli aspetti più opachi delle relazioni: «Non si pensa mai alla cura come una forma di imposizione e di castigo», mi dice, «invece in questo caso e in questa relazione c’è la pretesa e la supponenza da parte della madre (una delle protagoniste della storia) di pensare di sapere più della figlia stessa quello di cui ha bisogno».

Andando verso la fine le chiedo, come di rito, un consiglio da dare ai giovani esordienti (ma non solo). E se potesse darne uno a sé stessa quale sarebbe.

«Allora, io dico questo: nel mio caso ho provato sempre una profonda frustrazione e un sentimento di grande vergogna quando mi ritrovavo a leggere le cose che avevo scritto tempo prima. Quindi penso, in realtà, che la scrittura mi faccia sentire soddisfatta in rarissimi casi, solo quando sono vicinissima a ciò che volevo effettivamente scrivere. Poi, è ovvio, il processo di evoluzione è più veloce di tutto il resto. Bisogna fare pace col fatto che, rileggendo il testo, arriverà la frustrazione.

L’altra cosa che mi verrebbe da suggerire, ma io sono l’ultima persona che può dare dei suggerimenti, è la libertà. La pagina è un luogo di libertà, quindi consiglierei proprio un’indomabilità immaginativa: sulla carta tutto è possibile. Serve lasciare che la libertà e l’immaginazione viaggino, non bisogna attenersi a dei canoni che sono legati, non so, a ciò che può più o meno essere venduto… lasciare che la libertà faccia il percorso che, tra l’altro, si merita di fare. Questa mi pare una delle cose più facili da considerare ma più difficili da applicare. Perché più si ha voglia di pubblicare e più si è costretti a fare delle rinunce, a sacrificare delle cose. E secondo me è un gioco sporco e non dovremmo abbassare la testa, cioè non dovremmo mai dire sì, assecondare».

La ringrazio, un po’ emozionata, spengo la sigaretta e chiudo la chiamata.

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