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EFFETTO STREGA – Intervista a Mario Desiati (Spatriati – Einaudi)

intervista a Mario Desiati

A cura di Stella Amato e Alessandra Rossi

Francesco e Claudia si conoscono fin dai tempi della scuola. Lui non ha il coraggio di avvicinarla, lei si mostra spavalda e fuori dagli schemi. I due ragazzi finiscono per condividere un inaspettato fardello familiare e tra loro nasce un’amicizia che si nutre del loro essere opposti ma complementari. Mentre lei fugge, cancella e rinnega, lui resta, accoglie e accetta. E così crescono tra Martina Franca, Londra, Milano e Berlino, lontani ma vicini, riflettendosi nelle frasi lasciate a metà, nei rapporti con persone sbagliate e nella consapevolezza che ogni limite può essere abbattuto, che essere diversi non significa essere inadeguati. Il rapporto che li lega, autentico e senza pregiudizi, rappresenta per Francesco e Claudia la spinta più grande per affrontare un percorso alla scoperta di sé e dell’altro. Il legame viscerale con una terra natia che li raggiunge sempre, ovunque essi vadano, permetterà a Francesco di capire che ogni viaggio implica un ritorno e che nessuna verità è più importante della sua.

Il romanzo è suddiviso in sette capitoli, i cui titoli utilizzano termini presi dal dialetto di Martina Franca (Puglia) e dal tedesco, fatta eccezione per l’ultimo che si avvale di un vocabolo italiano. Attraverso di essi si può seguire l’iter esistenziale di Francesco, protagonista nonché voce narrante. La scelta di utilizzare la parola Amore per designare il capitolo conclusivo traduce la volontà di riconciliazione tra due forze opposte provinciale e meridionale da un lato, europea e metropolitana dall’altro? Possiamo dire che l’amore sia eletto a lingua franca?

In realtà l’ultima parola in quel capitolo è in dialetto martinese, ho messo la definizione che ne dà il dizionario di Giuseppe Grassi (Dizionario martinese-italiano, Schena, Fasano 1979). Amore è uno di quei lemmi cosiddetti «falsi amici», e vuol dire «sapore» e lo si utilizza solo per la frutta. Invece il sentimento si traduce con Bbun, che è anche «bene». Fa impressione che nel dialetto non esista Amore. È una cosa che succede anche in altri dialetti. Amore inteso come sapore è, nel caso specifico, l’idea di pienezza: il tentativo di dare – con una parola apparentemente italiana ma che con il dialetto assume una sfumatura nuova – il senso di autenticità al legame dei protagonisti. Senza titoli o insegne, senza convenzioni o nomi, ma solo attraverso la loro essenza.

Il suo trasferimento a Berlino e l’inizio della stesura del romanzo risalgono al 2015. Quanto e come è cambiato Mario Desiati dal suo arrivo in quella che lei stesso definisce, all’interno del testo, «una città dove ogni illusione di libertà, integrazione, solidarietà e democrazia sembrava possibile» e come si è riflesso questo cambiamento nella narrazione e nella struttura di Spatriati

Esistono molte persone che vanno a vivere in un altro paese per ricominciare una nuova vita, ed è un po’ quello che volevo fare quando mi sono trasferito. Sapevo che avrei scritto un libro intitolato Spatriati, e sapevo che sarebbe stata la parola con le sfumature del mio dialetto, quindi irregolare ma anche un po’ interrotto. Berlino è un posto dove ho avuto la sensazione che, ripartendo da zero, non mi sarei mai sentito uno. È un luogo dove ho percepito che tutto aveva una nuova vita: penso, per esempio, alla sua archeologia industriale che si è trasformata in luoghi di aggregazione giovanile e popolare. Una delle prime parole che ho imparato in tedesco è Scheitern, «fallire». Tutti parlano dei loro fallimenti, senza la preoccupazione di apparire delle persone inaffidabili. E poi c’è il mio legame personale e familiare con Berlino, che ha fatto sì che sentissi una parte profonda di me congiungersi con il passato e la sua memoria.

Francesco fin da piccolo partecipa alle processioni, trova riparo in Dio e nelle parole del Vangelo. Nonostante la pressione sociale del paese e i rigidi schemi ecclesiastici, trova il modo di dare spazio alle sue fantasie erotiche che tiene attentamente nascoste. L’approccio alla clubbing culture di Berlino gli mostra fin dove possono spingersi istinti e desideri sessuali. Cos’è che fa sentire Francesco così al sicuro tanto nella religione che nell’esplosione della sessualità berlinese? 

Il giudizio degli altri pesa quando sei giovanissimo ma anche da adulto, fa parte del complesso sistema delle pressioni sociali. Così, Francesco è al sicuro quando è protetto da persone di cui si fida, come Claudia, o se c’è qualcuno con cui può condividere le sue emozioni e le sue libertà. 

La dimensione del paese, Martina Franca, rappresenta un legame a tratti soffocante, un continuo alternarsi tra il bisogno di sradicamento e l’impossibilità di liberarsi totalmente delle proprie origini. Queste rimangono addosso «come una voglia gigante» o «graffi sulla pelle».  Secondo lei, il desiderio di allontanarsi il più possibile dalla patria che ritroviamo soprattutto in Claudia, la deuteragonista del romanzo, è un sentimento che può provare solo chi viene da una piccola realtà o anche chi è cresciuto in una metropoli?

Credo sia l’aspirazione di tante persone, non necessariamente di provincia. Anzi, i contesti in cui è esercitata una pressione sociale – penso al lavoro e alla famiglia – ci sono dappertutto, anche nelle metropoli. Avrei potuto ambientare il libro in un’altra città italiana o in un’altra capitale europea, ma la sostanza dello «spatriato» non sarebbe cambiata. 

Francesco cercherà per tutta la vita la felicità, guidato dal bisogno di sentirsi completo e individuando in Claudia la persona capace di dargli interezza. Sebbene sia proprio lei ad aiutarlo a superare i limiti che si è imposto e ad accompagnarlo nel suo percorso di crescita individuale, solamente con Andria – grande amore incontrato a Berlino – Francesco riuscirà a stare «nel suo centro», mentre con Claudia non avrà mai una vera e propria relazione. Come spiega questa scelta? Il loro è solo un legame identitario, in cui ognuno ritrova nell’altro quella parte di sé che non riesce a emergere?

Sì, il loro è un legame «spatriato», una forma d’amore fluida, colorata, emancipata, che si adegua alla loro essenza e non al dover essere in un determinato contesto sociale. Una corrispondenza di complicità e libertà che auguro a quante più persone di vivere e trovare.

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