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EFFETTO STREGA – Intervista a Veronica Raimo (Niente di vero – Einaudi)

Veronica Raimo

A cura di Sebastiana Savoca e Gaia Scintu

Un fratello dalla genialità ingombrante, un padre con la smania di alzare pareti per dividere le stanze e una madre che telefona ai figli giorno e notte: fin da bambina, e poi raggiunta l’indipendenza, Veronica deve imparare a ritagliarsi spazi tutti suoi in cui esistere. Niente di vero racconta la storia di un’educazione sentimentale e sociale: l’infanzia, gli innamoramenti adolescenziali, l’ingresso nell’età adulta e gli affetti vissuti tra Roma e Berlino. Attraverso una rassegna di tipi umani bizzarri ed episodi paradossali, ci ricorda come diventare adulti sia tutto meno che un tragitto lineare: è una strada da percorrere sorvolando su sé stessi, senza prendere le cose, anche le più tragiche, troppo sul serio. Ma attenzione: Veronica seleziona i suoi ricordi, li camuffa, li trucca, e imbroglia i suoi lettori come faceva con suo fratello al gioco del cinque. Spetta a loro decidere se lasciarla barare.

Il tema della verità è centrale nel romanzo, a partire dal titolo. Considerando il duplice valore del termine vero – verità, da una parte, e diminutivo di Veronica, dall’altra –, qual è la relazione che lega la protagonista alla verità? Perché la voce narrante afferma «Temo la verità più della morte»?

Ho costruito Niente di vero come un romanzo che parte dal mio vissuto per giocare con l’ambiguità strutturale di un lavoro autobiografico. Mi interessava proprio partire da questa domanda: che senso ha dichiarare che la nostra esperienza sia autentica se siamo noi a certificare questa autenticità? La verità di Niente di vero è una verità romanzesca, che si appoggia sulla convinzione di poter abbracciare l’idea che qualcosa sia vero e non vero allo stesso tempo.

«Io e mio fratello siamo diventati tutti e due scrittori. Non so cosa risponda lui quando gli chiedono come mai, io dico che è grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri genitori». Sulla scorta di questa affermazione, qual è secondo lei l’importanza della noia nel processo di formazione di uno scrittore?

La noia di cui parlo non ha la sensualità di una noia da esistenzialismo francese. È molto meno seducente ed eroica. Prendere una noia molto prosaica come genesi di una vocazione alla scrittura mi serviva a scardinare certi discorsi enfatici sul “dono” o sul “tormento” dello scrivere. Sono un po’ scettica quando sento parlare di scrittura solo in termini di salvezza o dannazione.

Considerando la figura del fratello di Veronica, possiamo dire che talvolta incarni l’alter ego della protagonista, talvolta rispecchi la sua antitesi, ma pare sempre che metta in contatto Veronica con la realtà; non a caso lo sentiamo pronunciare le parole «Guarda che lo so che imbrogliavi nel gioco del cinque». Sembra così che custodisca il principio della verità che viene continuamente mistificata dalla sorella. Qual è dunque la funzione del fratello all’interno della relazione che lega la protagonista alla verità? Potremmo attribuirgli un ruolo costitutivo nel processo di formazione del personaggio di Veronica e del libro stesso?

Sì, la figura del fratello gioca in antitesi, ma in tanti casi è anche un alleato. Al contrario della protagonista, però, riesce a trovare un senso più rigoroso nelle cose, forse anche più etico, grazie a una fede che a Veronica manca. Si tratta di una fede sia politica che religiosa.

Per quanto riguarda il processo di scrittura del romanzo, ha usufruito di annotazioni raccolte negli anni e che hanno preceduto l’idea di questo libro, oppure si può collocare la stesura del manoscritto in un arco temporale circoscritto caratterizzato da un flusso ininterrotto di pensieri?

Sono confluite in questo libro cose che avevo già scritto, con destinazioni piuttosto disparate. Non tanto appunti, ma monologhi teatrali, articoli di giornale, racconti. Era un materiale piuttosto eterogeneo che però aveva in comune un certo registro, una voce simile.

Niente di vero potrebbe diventare una sorta di modello per chi vuole raccontare il coming of age delle ragazze in modo vero e non edulcorato, un po’ come ha fatto Fleabag con la serie tv, ma ancora prima con lo spettacolo teatrale. Si aspettava un effetto del genere? Qual è stata la sua esperienza professionale in quanto scrittrice (donna) in Italia? C’è un messaggio in particolare che vuole dare alle lettrici attraverso le pagine del suo libro?

Mi angoscia moltissimo la parola “modello”, quindi non so, credo che per me i modelli siano stati soprattutto quelli da mettere in crisi in un secondo momento. Non volevo dare nessun messaggio, anzi, spesso mi capita di leggere delle critiche proprio su questo punto: “Non si capisce che messaggio voleva darci l’autrice”. Sono contenta che non si capisca. Per quanto riguarda la mia esperienza da scrittrice, mi rendo conto che sempre di più negli ultimi anni si è creata una rete tra scrittrici più o meno mie coetanee. Parlo di rete perché sono rapporti orizzontali di scambio, e sono quelli in cui mi trovo meglio. Quando ero più giovane avrei desiderato trovare invece una sorta di “maestra”, intendo una maestra vivente, una scrittrice di un’altra generazione che potesse indicarmi una strada. Non è successo, ma oggi non è più un rimpianto. 

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