Silvia Ferretti e Martina Ricciardi, ex corsiste del master «Il lavoro editoriale», intervistano lo scrittore Gianfranco Di Fiore, autore di Quando sarai nel vento (66thand2nd).
Dopo l’esordio nel 2011 con il romanzo La notte dei petali bianchi (Laurana Editore) e dopo la pubblicazione di diversi racconti in varie antologie e blog, torna a parlarci una delle voci più intense e interessanti del panorama italiano contemporaneo.
Gianfranco Di Fiore nasce nel 1978 nel Cilento in una famiglia di musicisti, e sin da bambino sente di avere un legame particolare con le storie, sia reali che inventate, e le vive in ogni loro forma, dal cinema (ha lavorato per Giffoni Film Festival e per alcune società di produzione, sia a Parigi che a Barcellona) alla scrittura.
Quando sarai nel vento (66thand2nd) è la storia di Abele, che con il corpo scarno e la «mano guasta» lascia il Cilento per dedicarsi alla tesi di dottorato e allo studio dei venti in una piccola stazione meteo de L’Aquila. La vita scorre lenta e silenziosa e la miseria circostante, figlia del terremoto, riflette la desolazione interna di un ragazzo che ha rimandato troppo a lungo un confronto onesto con il suo passato e con la vita. Decide così di lasciare la casa natale, la sua gemella Corinne e sua madre, affetta dalla sindrome di Asperger, per cercare di riscattare sé stesso.
Abele sopravvive in una stanza in affitto dagli Hensel, una coppia di ebrei sedicenti sopravvissuti ai campi di sterminio, che rievocano quotidianamente le violenze del genocidio. Due sono le persone con le quali Abele condivide il proprio disagio: Marlena dai capelli di zucchero, di cui è innamorato e a cui non perdona la relazione con il violento Adamo, e Livio, un ragazzo omosessuale che ha scelto di allontanarsi da casa per vivere liberamente la sua sessualità. A spezzare la monotonia nella vita di Abele è la necessità di ritrovare suo padre, di salvare sé stesso e Corinne attraversando il globo, per cercare quell’uomo mai conosciuto e di cui sua madre non ricorda nemmeno il nome.
Con qualche bottiglia di acqua frizzante e la strumentazione necessaria per girare un film sul vento, Abele e Marlena intraprendono un viaggio tra Argentina, Stati Uniti e Francia, amandosi e riscoprendosi più vivi che mai. Il vento, però, è sparito dal mondo, e la sua assenza farà ristagnare l’intera umanità nei propri abissi, spesso quieti e silenziosi. E solo quando ritornerà il vento, più forte che mai, le anime scosse riprenderanno a vivere.
Quando sarai nel vento è un romanzo sul bisogno di sentirsi e riscoprirsi umani, con tutte le fragilità, le complicanze e le follie che ciò comporta. I personaggi, ben delineati e distinti, hanno un tratto che li accomuna: sono istintivamente portati ad allontanarsi da ciò che conoscono e da ciò che sono, tendono ad annichilirsi con sostanze stupefacenti, con violenza o digiunando, prima di arrivare a sentirsi padroni del proprio tempo.
If I Ain’t Got You, Lust for life, El día que me quieras, sono solo alcuni dei brani musicali che risuonano muti tra le righe di Gianfranco Di Fiore, colme di contenuti e citazioni, e che rendono Quando sarai nel vento un romanzo complesso e inquieto.
Non lo so, Marlena. Non ne posso più di dover fare i conti con una morte che non vedo né conosco ma che mi ritrovo costretto a immaginare e a vivere negli altri, a tirarla fuori dagli occhi di chi cammina nel mondo. Se questo deve essere il nostro ultimo giorno di vita, allora dimentichiamoci di averne vissuta una e speriamo che vada tutto bene, che saremo felici e che ci proteggeremo, che per noi ci sarà nuova luce in cui potremmo ridere sempre, anche dopo che tutto sarà finito.
Ciò che ci ha maggiormente colpito del romanzo è la caratterizzazione dei personaggi, che fin da subito ci appaiono familiari. Hanno caratteristiche ben definite, e la cura dei dettagli ha permesso al lettore di andare a fondo nella loro vita e nella loro psicologia.
Abbiamo notato che esiste un correlativo oggettivo tra l’interiorità dei personaggi, il carico emotivo che si portano dentro, e il contesto in cui si svolgono le vicende. Vorremmo dunque ripercorrere le quattro parti del libro insieme a te, cercando di decifrare queste corrispondenze.
1) Bianco. Nella parte iniziale la staticità, il silenzio, la “morte” di Assergi, devastata dal terremoto, corrisponde perfettamente allo stato d’animo di Abele: un ragazzo fragile e inquieto, tormentato dalla ricerca di sé stesso che riesce a mettere in atto solo dopo l’assunzione di ecstasy. Quanto il contesto esterno, in questo caso, influenza la caratterizzazione del personaggio? Si potrebbe dire che Abele incarna il contesto in cui è inserito?
Sì, Abele incarna totalmente il contesto in cui è inserito. Questa è una caratteristica del romanzo e, in generale, della mia scrittura. Credo che gli ambienti, i paesaggi, le città debbano essere, a tutti gli effetti, dei personaggi. Ognuno di noi, dal momento in cui nasce, assorbe delle caratteristiche, più o meno negative, inerenti al contesto in cui vive, e quindi non può esistere un personaggio, o la possibilità di una narrazione, senza che questa non risulti condizionata dall’ambiente. Il contesto è fondamentale, imprescindibile. A meno chela sua eliminazione non nasca da una necessità molto forte, e prendo un caso su tutti: Occhi blu, capelli neri di Marguerite Duras. È un romanzo minimale che racconta la storia di una coppia in una camera d’albergo, in un posto imprecisato. Al suo interno non c’è una storia, c’è piuttosto un movimento teatrale dei corpi: tutto è volutamente nascosto, ma l’elemento simbolico ed esistenziale è così spinto che si capisce subito il progetto che c’è dietro. Ovviamente,Quando sarai nel vento non è una storia minimale, e non è una scrittura solo di tipo esistenzialista, anzi, il romanzo è anche un omaggio alla letteratura. Ci sono diversi generi che si intrecciano, e la scrittura stessa cambia da una parte all’altra. Nella prima, dove Abele si fonda, dove tutti i personaggi iniziano il loro sviluppo narrativo, il romanzo parte come una sorta di scrittura di formazione: nonostante i trent’anni di Abele, scopriamo che in lui c’è tanto del mondo infantile, o comunque adolescenziale. Non a caso, è ancora vergine. Il concetto di sospensione pervade tutto il libro e tiene insieme il romanzo, soprattutto nella prima parte. Tutto quello che è costruito intorno ad Abele è in sospensione: la stazione meteo, le attrezzature che non arrivano, un lavoro che non è un lavoro, l’assenza di legami reali e di una vita intima, reale. Nel costruire Abele sono partito dai luoghi della mia famiglia: quasi tutti i miei parenti vivono negli Stati Uniti, altri vivono a Buenos Aires, e altri ancora in Francia. Da qui nasce l’esigenza di raccontare questi posti–con la musica, la scrittura, o il cinema. Ho un metodo di lavoro molto particolare, che si rifà al cinema, più che alla letteratura: strutturo il libro scena per scena, inserisco fotografie, note audio, quelli che in gergo si chiamano “trattamenti tecnici”. E scrivo anche le famose “bibbie” – all’inizio, ad esempio, ho scritto anche la storia di Abele fino ai trent’anniper capire come potesse essere in quel momento della sua vita. Una volta conclusa questa lunga parte strutturale del romanzo, durata due anni, sentivo che avevo bisogno di calare Abele in un ambiente che, come voi avete giustamente percepito, doveva essere quanto più possibile una rappresentazione spaziale dell’animo del protagonista. Il suo isolamento lo costringe a un non-confronto con la realtà, e nel momento in cui lui si trova a reagire, la realtà deve essere comunque conosciuta. E il modo migliore, per me, è renderla assimilabile a lui. Esiste quindi una sorta di simbiosi tra i luoghi e il personaggio. E questo mi permette di bypassare anche un altro aspetto che non amo particolarmente, cioè l’uso didascalico dei dialoghi. Ne uso pochi, e quando li uso non mi servono per far progredire la storia. Non credo che la narrazione debba stare nei discorsi diretti. La narrazione sta fuori, il momento del dialogo deve essere un momento di apertura, che porta la dimensione della scrittura da un’altra parte.
Ma tornando alla domanda di base, sì, Abele è costruito in modo da raccontare questa sorta di solitudine e di ricerca di identità che poi, man mano che il romanzo va avanti, si apre a L’Aquila, all’Italia, al Mondo. È una scatola cinese che ripercorre tutto il libro. E non solo in riferimento ai personaggi, ma anche ai luoghi, e ai diversi periodi storici: pur appartenendo a zone ed epoche diverse, c’è sempre una struttura a specchio che ritorna. Dovevo tenere insieme i colori, i luoghi, i personaggi e la scrittura – la scrittura di Bianco, non è quella di Rosso, e così via.
SILVIA: A proposito del bianco, volevamo chiederti un’altra cosa, anzi, due. La prima è come mai hai scelto Assergi, e poi perché proprio il colore bianco…
Ci sono diverse spiegazioni per il bianco: è il bianco della neve abruzzese, ma è anche il bianco della roccia nivea del Gran Sasso che riflette la luce estiva, ed è il bianco della verginità – quella di Abele – e del foglio bianco, perché tutti i romanzi, compreso questo, iniziano così. In qualche modo Assergi mi permetteva di avere un bianco che fosse meno accademico, nel senso che la neve de L’Aquila, anche nel panorama dei lettori, ha una certa simbologia, mentre Assergi, che è meno nota, evoca un bianco più misterioso, meno scontato. E poi questa dislocazione è narrativamente importante per la vicinanza dei laboratori del Gran Sasso, che sono una presenza emblematica perché Abele riversa sul paesaggio che lo circonda una grande frustrazione. La sua sospensione deriva anche dal blocco professionale che lui vive e che lo fa sentire ancora più fuori da una certa identità precisa: lui vorrebbe stare nei laboratori LNGS, è lì dentro che lui cerca la sua esistenza minima, il contatto con il mondo reale. La solitudine di Assergi permette di creare una dominante di bianco sul personaggio meno algida, e più spaesante: un bianco che non ha direzione, che non ha candore.
2) Rosso. Il ritrovamento della cartolina mandata dal padre di Abele vent’anni prima è uno dei punti di svolta della vicenda, da qui parte il viaggio – reale e metaforico – del protagonista.
Sì, la cartolina funziona come la scatola blu di Mulholland Drive, è la scatola blu del mio romanzo, non solo perché dà una prima traccia da seguire per il viaggio, ma permetterà al padre di sapere dove abita il figlio. Quindi mette in comunicazione in maniera magica i luoghi del padre e del figlio. Il palazzo in cui Abele e Corinne ritrovano la cartolina, tra l’altro, è stata casa mia per vent’anni, è un luogo importante della mia vita. Il campetto e la chiesa sono posti che io ho vissuto per anni. Tutto il racconto delle luci alle finestre è un racconto della mia città, della mia infanzia, e quel buco sul muro della casa dove Corinne nasconde la lettera per il padre esiste davvero, sono tutti elementi autobiografici.
La prima cosa che lui e Marlena vedono una volta arrivati in Argentina sono le W della White War: una serie di rivolte consapevoli messe in atto dagli ambientalisti che contrastano nettamente la staticità della prima parte del romanzo. La “guerra bianca”, senza armi, degli attivisti però corrisponde anche alla guerra bianca di Abele, una guerra per cercare sé stesso, questa volta senza le droghe. E una guerra per affrontare l’amore per Marlena che cresce silenzioso dentro di lui. C’è una corrispondenza, anche qui, tra il contesto e l’interiorità del personaggio?
Sì, questa cosa appartiene alla struttura del romanzo. Il libro è diviso in quattro parti, ciascuna delle quali ha una titolazione cromatica e, come avrete visto, è pieno di citazioni: alcune più evidenti, altre più camuffate. Tra queste citazioni, che vanno dalla filosofia, al cinema, alla letteratura e alla musica c’è un omaggio primordiale a Kieslowski, alla sua trilogia del colore – bianco rosso e blu – dove prende un colore e lo trasporta nell’animo del personaggio raccontando una sorta di colorazione emotiva. Io, invece, ho voluto fare una cosa un po’ più complicata allargando il discorso agli ambienti, ai personaggi e agli oggetti presenti sulle scene che spesso sono scientificamente messi in un set narrativo, come fosse una scenografiapiù che un romanzo. Quindi la colorazione pervade il libro attraversando tutti gli stadi, e nella parte rossa, ovviamente, il richiamo è primariamente quello all’emotività, al fuoco reale appiccato nella Pampa dagli esponenti della White War, ma è anche il fuoco emotivo di questa coppia sgangherata che inizia a mettere della legna da ardere nel proprio rapporto. Ed è ovviamente anche il rosso del sangue, il sangue che inizia a circolare ed è il simbolo emblematico del tumulto. Sullo sfondo, poi, rimane anche il fuoco letterario. Whitman non è stato scelto a caso: la fiamma che agita la sua poetica riguarda il connubio con la natura che dà origine a un fuoco naturale. Ma è anche un omaggio a Marx – se ci fate caso, in moltissime rappresentazioni Whitman viene raffigurato molto simile a Marx. Questa lotta contro il petrolio, contro uno stato fascista e reazionario, gioca sulla memoria iconica che abbiamo: Whitman, che è anche un po’ Marx, rappresenta un messaggio poetico che diventa storico-materialistico. All’inizio non ero sicuro che questa lotta dinamica potesse funzionare davvero, mi sembrava un’idea folle. Poi nel 2012, quando mi trovavo in Argentina, si è scatenata una rivolta reale in seguito ad alcune manovre politiche riguardo i prezzi del carburante e ad altre del Governo per strappare delle petroliere ai legittimi proprietari; così, una volta rientrato in Italia, mi ritrovai tutti questi appunti che mi costrinsero ad allargare la scaletta del libro. Alla fine dei miei viaggi avevo moltissime note e suggestioni in più, e questo rafforzava l’idea che per creare un certo tipo di meccanismo narrativo non si può prescindere dal contesto reale.
Quindi sei stato anche ad Assergi…
Questo è interessante. Quando sono andato in Abruzzo mi sono ritrovato di fronte a una grande desolazione che, da una parte, è diventata il mio stimolo narrativo primario. Era il 2012, erano passati tre anni scarsi dal terremoto e io mi trovavo in una condizione diversa rispetto all’Argentina e a New York, perché dovevo immaginare quello che c’era prima, quello che ci poteva essere in un futuro e poi raccontare quello che, invece, non c’era più. Allora ho deciso di tenere pochi riferimenti e di ricreare una mappa de L’Aquila con le aggiunte di cose che non esistono [ci mostra la cartina, ndr], perché ero convinto che per far funzionare bene questa parte, ovvero il luogo decisivo del romanzo, dovevo lavorare come si fa al cinema, dovevo ricostruire un’ambientazione, dovevo descrivere una città distrutta e, al contempo, narrativamente funzionale. Ma ci sono stato talmente poco che ho dovuto fare tutto nella mia testa. Alla fine alternavo Google Maps alla mia mappa virtuale, e credo di esserci riuscito.
3) Blu. L’arrivo a New York.Dal caldo asfissiante e dal tumulto rivoluzionario del Sudamerica si arriva al freddo degli Stati Uniti. Anche qui abbiamo riscontrato una corrispondenza con l’emotività di Abele: dalla foga di cercare suo padre al gelo emotivo per non averlo ancoratrovato. E poi c’è l’incontro con lasorellastra, con cui si crea un legame particolare.
Quanto l’incontro con questa famiglia, generata dallo stesso padre, e quanto vedere una sorella che tutto sommato riesce a convivere con l’assenza (a differenza di Corinne, ad esempio, che si lascia consumare dal fantasma dell’anoressia) ha spinto Abele a tornare a casa?
Nella mia visione il blu, anche se a livello medico ha delle implicazioni note (i bambini indaco, il distacco emotivo), è strettamente legato all’elemento familiare, che però viene rivisto sotto una lente domestica e sociale differente. È il primo momento in cui il padre di Abele, nell’assenza, diventa percepibile: si possono immaginare i suoi luoghi e la sua città. Ma il blu rimanda anche alla dominante vera di New York, un blu di acciaio e vetro che domina la zona che ho deciso di descrivere: una New York molto vicina alla Brooklyn di Paul Auster, e questo è un altro omaggio a una letteratura che amo molto. Tuttavia la scelta non è casuale, perché quando sono arrivato lì e ho deciso di andare in quella parte di New York nota per una certa letteratura, mentre camminavo, mi sono ritrovato ad Atlantic Avenue e all’improvviso mi sono visto davanti questo mostro di acciaio; lo sgomento che Abele prova nel taxi quando lo vede è lo stesso che ho provato io. Era quasi sera, il vetro rifletteva un cielo blu e profondo, di maggio, e mi dissi sì, sono nel mio romanzo: quello spicchio di romanzo era già pronto, e a suo modo viveva. Ci sono voluti due anni per riuscire a inserire il “mostro” nel libro: all’inizio ero sicuro solo del luogo che volevo raccontare, e invece ho incluso anche questa parte dopo essere stato in quel posto, dopo averlo vissuto sulla mia pelle. I luoghi, poi, funzionano se sono reali – per me è una cosa imprescindibile.
Il meccanismo a New York diventa sempre più complesso a causa dell’assideramento emotivo, o comunque di ricerca che si dirige verso il congelamento. La scena simbolica più forte che crea uno scatto in avanti nel romanzo è il piccolo rogo che Abele appicca davanti all’ospedale di Staten Island: questa scena è un modo per dire basta con la ricerca di suo padre, con la sua ossessione.
Fino a quelmomento Abele è il personaggio più lucido, anche se più fragile, quello più sano dal punto di vista emozionale, quello che vuole sacrificarsi per la sorella e che ricerca l’amore, che vuoleessere più umano di tutti: ma nel gelo, in mezzo a un blu che è un blu di freddezza profonda, il suo personaggio inizia a perdersi.
MARTINA: E anche la mano di Abele diventa blu. Verso la fine del romanzo c’è la scena in cui Marlena gli dice che in realtà la sua mano non ha niente. Ci sembra strano che Abele, per tutto il romanzo, faccia molto caso alla sua «mano guasta» mentre la gente intorno a lui non la vede.A un certo punto, descrivi il momento in cui Marlena gli prende la mano: non c’è un commento, un’espressione da parte di chi la tocca; manca un reale confronto su questa mano che a noi lettori sembra evidente perché descritta, ma chi vive nel romanzo sembra non accorgersene, non vederla. Quindi è quasi come se diventasse un altro mostro di Abele.
Abele, che tende a rappresentarsi in maniera orrifica, e la stessa April che viene descritta con un metaldetector che le suona sempre nella tasca, vengono allontanati un po’ dalla classica descrizione di un essere umano nel senso canonico.
Quando ti trovi davanti una serie di personaggi e di luoghi li senti naturali perché attraversano una serie di fasi, e tu, come lettore, ne vieni inglobato.Allo stesso tempo, però, li respingi perché non sono mai umani e reali al 100%, sono iperrealistici – l’iperrealismo deforma sia la storia che i personaggi. Nonostante l’inverosimiglianza e il simbolismo pervadano tutto il romanzo, alla fine sembra tutto possibile, reale. Ed è molto strano,perché se lo scomponi sembra unracconto alla Borges,o alla Ballard, in certi momenti.Quello che posso dire sulla mano è che in parte, la sua simbologia, si ispira alla ricerca filosofica di Carlo Sini, uno dei massimi filosofi italiani: tutta la sua dottrina,strettamente legata all’antropologia, parte dallo sviluppo della mano: quando dalla scimmia la mano cambia la sua funzione, e quindi l’essere vivente da quel momento riesce a trasformare la realtà dando vita a una funzione quasi marxista di produzione, ha inizio una nuova era. Ma nel romanzo c’è un’altra presenza filosofica, forse la più importante, ed è quella di Heidegger, che è la vera voce narrante. Heidegger è un personaggio abbastanza complesso e cruciale del ‘900: l’idea del suo essere spaziale e temporale, nel mondo, tutta la sua dottrina esistenzialista, pervade il mio romanzo. L’idea di fondo del libro parte dal vento che si ferma, e se metaforicamente il vento fa riferimento al cinema di Fellini (in ogni suo film c’è il vento che fischia, anche quando le cose non si muovono c’è sempre un fischio che arriva da qualche parte), nella mia mente –e nell’apparato simbolico del romanzo –il vento rappresenta quella che Heideggerchiama la necessità della tonalità emotiva. È impossibile pensare a un uomo che non sia legato alla sua dimensione emotiva, e il flusso di questa dimensione emotiva l’ho fatta passare attraverso il vento. Se si ferma il vento, si fermano anche le emozioni.
E parlando del vento mi ricollego al titolo, che è il vero protagonista del romanzo, la molla di base del libro. L’ho scelto anche per la dimensione dell’opera: ho tagliato oltre 200 pagine, ma le ho tolte senza rimorsi, perché quando lavori per anni a una storia senza rivederla spesso, non ti rendi conto di ciò che hai effettivamente scritto. Quando sono tornato sulla parte del bianco, ad esempio, mi sono accorto che era talmente vasta e piena di elementi che mi sono trovato a sfoltire la narrazione.
Lavorare col mio editor è stato bellissimo; Raffaele Riba è uno scrittore bravissimo ma molto diverso da me, quindi il confronto con lui è stato costruttivo. L’unico tasto dolente è stata la punteggiatura: ne faccio un uso musicale, come da pentagramma. I redattorihanno fatto un grande lavoro, e a volte magari mi chiedevano: «Ci sono tre punti e virgola consecutivi, vanno mantenuti?». In generale, mi hanno lasciato totale libertà. Le uniche due cose che ho tolto di sana pianta, sotto consiglio del mio editor, sono due sequenze intere: una di 5 pagine e una di 15; erano personaggi che comparivano solo lì, una in Italia, su un taxi, e una in America, in New Jersey.
4)Giallo. Abele e Marlena tornano in Europa, a Parigi. Da questo momento in poi tutto cambia, ricompare il vento che rianima il mondo e scompiglia le cose.
Abele torna ad Assergi con Marlena e Corinne, nella città spettrale dell’inizio. In altre interviste parli di distopia, ma il romanzo ci sembra anche molto reale. D’altronde inizia e finisce in una terra che trema, ha sempre tremato e tremerà ancora. Per tutto il romanzo si respira un’aria apocalittica, questo è vero, ma la percezione che abbiamo avuto è che, di nuovo, la vera apocalisse fosse quella interiore dei personaggi…
A Parigi Abele arriva in una condizione psicologica devastata: ed ecco che arriva una rappresentazione che si innesta nel grande ingranaggio del romanzo. Abele è un personaggio che vive in una famiglia altamente disfunzionale, con una mamma affetta da Asperger, una sorella con disturbi alimentari e psichici, un padre assente, una complessa identità e un rapporto difficile con l’universo femminile. Una situazione come questa non può esistere in una persona (in un personaggio) senza un momento di sbandamento: quindi per un personaggio che per tante pagine mantiene il controllo e vive delle situazioni sempre più violente sarebbe stato totalmente inverosimile non arrivare a una crisi. Quindi dopo che tutti avevano avuto il loro momento di crisi, ora toccava necessariamente a lui. E siccome arrivava alla fine, come epilogo, non potevo più gestirlo come prima, dovevo costruire tutta una serie di processi: serviva uno stacco netto, narrativo, temporale e spaziale. Da questo punto di vista, la malattia mi permetteva di entrare in questa scena totalmente nuova, rarefatta, e quindi ho scelto di descriverla nel giallo, che è il colore della malattia, del pus, dell’ittero: un riferimento a questa sorta di luogo post apocalittico, vessato dall’impeto dell’auto-annichilimento. La descrizione di questa distopia riscrive il non luogo della sua mente, della sua psiche, della sua emotività, che dopo tutta una serie di turbamenti e di non scoperte arriva a una sorta di aridità malata. Abele si ritrova a non poter più sentire le cose, inizia a compilare vuoti elenchi, e attiva dei processi malati senza alcuna coscienza sentimentale. È impossibilitato ad affezionarsi alle cose. Quello che durante tutto il libro viene lanciato come messaggio onirico, di colpo, diventa realtà, e il paesaggio circostante – ancora una volta quello devastato dell’Abruzzo, di Assergi – aiuta questatrasfigurazione finale. È la realtà che supera la letteratura. Essenzialmente, è lo scambio tra letteratura e vita.