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Rabbia senza nome. Il rancore nella letteratura italiana contemporanea

Articolo Alberto Paolo Palumbo

a cura di Alberto Paolo Palumbo, allievo del master Il lavoro editoriale 2021

Invidia, vendetta autodistruttiva, mancanza di punti di riferimento, abbandono e degrado sociale. Aspetti diversi dello stesso sentimento che scaturisce da una posizione di marginalità.

Negli ultimi anni, moltissimi autori italiani contemporanei si stanno confrontando con il sentimento della rabbia, un impulso che nutre le vite di coloro che esperiscono un vuoto ideologico ed esistenziale, che non solo sono prigionieri di un contesto sociale dal quale non sembra esserci via d’uscita, ma anche di conti in sospeso lasciati con il passato.

Tra gli scrittori che più di tutti hanno saputo tematizzare il rancore figurano due candidate al Premio Strega 2021 come Teresa Ciabatti e Giulia Caminito, rispettivamente con Sembrava bellezza (Mondadori, 2021) e L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), ma anche due tra gli esordi alla narrativa più promettenti degli ultimi anni, ovvero Andrea Donaera con Io sono la bestia (NN Editore, 2019) e Mattia Insolia con Gli affamati (Ponte alle Grazie, 2020).

Invidia, vendetta autodistruttiva, mancanza di punti di riferimento, abbandono e degrado sociale. Aspetti diversi dello stesso sentimento che scaturisce da una posizione di marginalità. La protagonista di Sembrava bellezza – che molto probabilmente coincide con l’autrice e che, parafrasando Troppi paradisi di Walter Siti, «è da considerarsi un personaggio fittizio», siccome «la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, un fac-simile di vita» –, rimarca sempre il suo essere «ragazza di provincia» o «provinciale disadattata», sebbene riesca ad affermarsi come scrittrice di successo. Gaia, d’altro canto, protagonista di L’acqua del lago non è mai dolce, vive in una periferia onnicomprensiva, che non riguarda solo le zone laziali come Anguillara Sabazia, ma anche il centro di Roma, poiché «per essere periferia devi aver presente quale sia il tuo centro e noi quel centro non lo vediamo mai», essendo la rabbia e la marginalità della protagonista una situazione condivisa anche da chi vive nella capitale. Più estremi, invece, sono l’emarginazione e il rancore vissuti da Mimì Trevi di Io sono la bestia e dei fratelli Paolo e Antonio Acquicella de Gli affamati. Il contesto raffigurato dai due romanzi è respingente, chiuso, non ammette intrusioni dall’esterno: per Donaera, l’ambientazione pugliese è inospitale, aspra, immobile, mentre per Insolia, la periferia immaginaria del centro-sud Italia di Camporotondo è descritta come desolata, fatiscente, un luogo dove governa l’indifferenza delle persone, «un recinto per polli, un purgatorio terrestre» e un «confino riservato per i dannati di natura».

Le realtà dove si collocano le vicende dei personaggi fa scaturire la rabbia che li muove. Il complesso di inferiorità e conseguente invidia che la scrittrice di Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti prova verso Livia, la sorella della sua amica Federica, è ciò che dà sfogo alla sua irritazione. L’io narrante prova un rancore radicato dai tempi delle superiori, quando lei, ragazza con problemi di peso, figlia di genitori separati, costretta a vivere con una madre da lei considerata nullafacente, si ritrovava sempre a confrontarsi con Livia, ai tempi la più bella della scuola e figlia di gente facoltosa. L’incidente di Livia alimenta ancora di più la sua collera, portandola a infierire sulla donna attraverso i suoi strumenti di scrittrice – e quindi di manipolatrice di vite – non solo mostrando come lei e la sorella siano diventate persone dalle vite spezzate, ma anche mettendo a nudo le conseguenze dell’incidente, ovvero il ritardo mentale, l’ossessione per il sesso e la sua capacità «di far del male ai bambini». Nonostante la protagonista sembri cercare di perdonare Livia in alcuni momenti del romanzo, i sentimenti di odio e vendetta fuoriescono comunque: rimarcare i danni dell’incidente della donna equivale a umiliare la persona che più di tutte l’ha fatta sentire in difetto in gioventù.

La rabbia come invidia sfocia nella vendetta, che sa essere, però, autodistruttiva. È il caso di Mimì Trevi, protagonista di Io sono la bestia di Andrea Donaera. Il suo risentimento nasce dalla morte del figlio Michele, che si suicida lanciandosi dal settimo piano del suo palazzo a soli quindici anni a seguito del rifiuto da parte di Nicole, compagna di scuola di cui il ragazzino si era innamorato. Dalla sua ira prorompe un grande senso di rivalsa per la morte del figlio. Mimì arriverà, infatti, a rapire la giovane ragazza e a segregarla in un casolare nelle campagne sperdute del Salento, e il suo rancore gli farà assumere tratti sempre più ferini, come la gobba, «gli occhi da bestia» e la capacità di fiutare la paura. Il protagonista non riuscirà a dire “basta” alla sua furia: la rabbia e la bestialità sono radicate nella sua natura, sono il risultato degli abusi subiti in famiglia durante la gioventù. Ormai è capace di comunicare solo attraverso la violenza. A quest’ultima l’uomo non sa rinunciare, e darà sfogo a un vortice autodistruttivo che gli farà stravolgere la sua famiglia e i suoi cari.

Se da un lato il rancore porta Mimì a distruggere i suoi affetti, la collera di Paolo e Antonio Acquicella de Gli affamati di Mattia Insolia nasce proprio dall’abbandono subito da parte dei propri familiari e dal degrado sociale di cui fanno esperienza. I due fratelli della periferia immaginaria di Camporotondo vivono una storia simile a quelle raccontate dai Cannibali (movimento letterario italiano nato nel 1996 con la pubblicazione dell’antologia Gioventù cannibale curata da Daniele Brolli per Einaudi Stile Libero), verso cui Mattia Insolia nutre un profondo debito: degrado urbano, droghe, alcol, mancanza di punti di riferimento e violenza. Camporotondo, il cui nome suggerisce circolarità e mancanza di via di fuga, non dà alternative ai due protagonisti, che trovano in una «rabbia senza nome» l’unico modo per esprimersi, per prepararsi all’indifferenza e alle ingiustizie del mondo esterno. La violenza trova la sua espressione non solo attraverso un linguaggio che fa uso di bestemmie, ma anche in momenti di eccessiva brutalità, che fanno sentire i due giovani, in particolare Paolo, alla stregua di un Dio in un mondo di persone che «si ostinavano a farlo sentire una nullità. Con la loro indifferenza. I loro modi cretini».

La rabbia sociale espressa da Insolia assume connotazioni ideologiche ed esistenziali – coinvolgendo non solo la periferia, ma anche il centro – ne L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito. La collera di Gaia assume importanza in considerazione al contesto storico in cui vive, che parte dalla fine degli anni Novanta fino agli anni Dieci del Duemila, dove hanno luogo eventi come il G8 di Genova e la crisi economica del 2008, avvenimenti importanti da tenere a mente, significativi di un crescente scontento per la mancata felicità e la mai raggiunta autodeterminazione. Gaia compie un percorso di consapevolezza di incapacità a «scantonare, girare l’angolo della vita». Che si trovi nel centro di Roma o nelle realtà circostanti, la ragazza non riuscirà mai a realizzarsi, a uscire dal suo immobilismo, persino finiti gli studi universitari, che alla fine non la porteranno da nessuna parte. La giovane protagonista impara a sue spese la solitudine, l’abbandono, ma anche le false promesse delle istituzioni, e scatenerà il suo odio contro qualsiasi cosa si imbatta sul suo cammino, persino verso le amicizie di una vita, che reciderà per arrivare a chiudersi in una solitudine rabbiosa.

La rabbia, però, non offre a nessuno una via d’uscita. È un sentimento difficile da domare: va accettato in maniera rassegnata come modo di essere. La protagonista di Sembrava bellezza non uscirà mai dal confronto e dall’invidia nutrita verso Federica, Livia, e persino verso sua figlia Anita, anzi, è proprio questo sentimento che le permette di esistere in quanto scrittrice. La vendetta di Mimì Trevi non si esaurirà mai: il suo è un sentimento ereditato della sua famiglia e sarà tramandato alle future generazioni, come suggerisce la struttura circolare del romanzo, che inizia e finisce con le stesse parole di odio e rivalsa. Sia per Gli affamati che per L’acqua del lago non è mai dolce, la collera diventa per i fratelli Acquicella e per Gaia una zavorra di cui è impossibile liberarsi e che li condanna all’immobilismo e alla rassegnazione di vivere un’esistenza fatta di promesse deluse e di vuoto esistenziale, sociale e ideologico.

Cos’è, dunque, la rabbia? È un sentimento senza nome, multiforme, che nasce dalle circostanze, da una posizione di marginalità, di cui difficilmente ci si può sbarazzare. Esso è figlio del nostro tempo, contraddistinto dalla solitudine, dalla mancanza di punti di riferimento e da un vuoto ideologico incolmabile, e che i personaggi dei romanzi trattati devono accogliere per poter esprimersi e rapportarsi agli altri.

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