A cura di Carlotta Forni, Filippo Ghiglione e Alessandro Montagnese
SECONDA PUNTATA | Capitoli 3 e 4
Il panorama editoriale italiano è un mondo articolato e complesso, composto da tanti percorsi diversi — a volte anche bizzarri — che confluiscono nell’unico e più importante: l’atto di pubblicazione del libro.
Dall’arrivo del manoscritto in casa editrice al suo debutto, il libro diventa espressione materiale del mondo che l’ha generato; un piccolo parallelepipedo di carta che da un lato contiene i pensieri, le ansie, le aspettative dell’autore che lo ha ideato, e al contempo rappresenta anche tutta la filiera editoriale che ha partecipato alla sua creazione.
Abbiamo così pensato di raccogliere le testimonianze di quattro professionisti che quotidianamente contribuiscono dietro le quinte alla nascita e alla vita del libro.
In questa puntata trovate le due interviste conclusive, grazie per averci seguito in questo piccolo percorso.
CAPITOLO 3
IL DIRETTORE DI COLLANA
INTERVISTA A STEFANO IZZO
Abbiamo avuto il piacere di conversare con Stefano Izzo, editor di grande esperienza, che ha collaborato, tra gli altri, con Walter Siti, Edoardo Albinati e Sebastiano Vassalli e con case editrici come Rizzoli e Dea Planeta. Attualmente Izzo ricopre il ruolo di direttore di collana per Le Stanze presso la casa editrice Salani, e proprio su questa figura si concentra la nostra intervista.
Nel suo scritto L’editoria come genere letterario (Adelphi, 2001), Roberto Calasso definiva uno dei criteri fondamentali dell’arte dell’editoria “[…] la capacità di dare forma a una pluralità̀ di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro”. Quanto è importante cercare di pensare in questi termini quando si gettano le fondamenta di una collana?
Pensare secondo uno schema è sempre sbagliato, secondo me. Credo che Calasso si riferisse ai legami sotterranei tra i libri che pubblicava, parentele rese possibili soltanto dalla sua particolare sensibilità, e non da qualcosa che fosse riconoscibile all’esterno. I libri che un editore (o un editor) sceglie sussurrano gli uni agli altri, e sicuramente qualcosa si dicono, ma non sempre – anzi, quasi mai – quel messaggio è chiaro ed evidente. O, quantomeno, lo diventa con il tempo e la coerenza. Prendete Adelphi, appunto: nel suo catalogo ci sono cose molto diverse, eppure sono tenute insieme dal lavoro dell’editore che dà un’illusione di coerenza a ciò che per sua natura è eclettico. Mi sembra un ottimo esempio da seguire, anche se non necessariamente l’unico.
Nel momento in cui oltre a cercare di capire cosa si nasconde fra le righe dei manoscritti in lettura si deve anche cercare di capire se e come collocarli all’interno di un contesto più grande, il gioco si fa duro. Quando si approccia alla lettura e all’editing del manoscritto, quanto influisce nel suo lavoro il pensiero di dover poi inserire quello scritto nella collana da lei diretta?
Influisce moltissimo, forse è il fattore che influisce di più, perché come editor lavoro all’interno di uno spazio preciso e non posso non tenerne conto. Il contesto non è mai troppo rigido, è elastico anzi, si può tirarlo, deformarlo, allargarlo in molti modi, facendo attenzione a non esagerare altrimenti si strappa. Voglio dire che ogni editor ha un margine di libertà, e spesso è anche un margine ampio, ma non infinito. Succede così che a volte rifiutiamo libri non perché siano brutti o sbagliati in assoluto, ma perché non saremmo in grado di pubblicarli in maniera conforme alla loro natura. Non tutti gli editori possono pubblicare tutto, non con la stessa efficacia almeno. Dopodiché, aggiungo che se incontro un capolavoro che non c’entra niente con la mia collana, non ci penso due volte a decidere di pubblicarlo; a come, ci penserò con attenzione, ma un attimo dopo.
Le Stanze, la collana da lei diretta per Salani, è nata da un paio d’anni e rappresenta una novità all’interno della casa editrice, in quanto collana dedicata alla narrativa italiana per adulti, diversa dalla letteratura per ragazzi cui la casa editrice viene normalmente associata. Che tipo di sfida ha rappresentato per lei questa collana, e in cosa questa esperienza ha differito rispetto alle precedenti che ha avuto nel corso della sua lunga carriera?
Salani è una casa editrice con centosessant’anni esatti di storia. Una storia anche molto varia, ricca di sorprese e di intuizioni geniali che hanno modificato più volte la fisionomia del suo catalogo. Negli ultimi decenni, sotto la guida di Luigi Spagnol e delle persone che lo hanno affiancato e tuttora guidano la Salani dopo la sua precoce scomparsa, si è affermata come punto di riferimento nella letteratura per ragazzi, con autori di qualità assoluta e con successi di vendita senza precedenti. Soprattutto ha affermato un nuovo modo di intendere questa tipologia di libro, destinandolo direttamente ai giovani lettori, non ai loro genitori, come avveniva nel secolo scorso. Ecco che, raggiunto questo livello di riconosciuta eccellenza nel segmento dei ragazzi, nel 2020 la casa editrice ha pensato di dedicare parte delle proprie energie alla narrativa adulta, dando più sostanza e identità a una produzione che già esisteva. E così sono nate le Stanze, che fin dal nome vorrebbero essere un ambiente accogliente, personalizzabile, arioso. Per quanto mi riguarda è la sfida migliore che potessi augurarmi, perché si tratta di portare avanti le stesse idee che hanno ispirato centosessant’anni anni di storia della Salani – eclettismo, cura, innovazione – e che mi appartengono.
Il mestiere dell’editor, come insegna anche nei corsi e nei laboratori di cui è docente, è un mestiere costruito su un mix di tante cose, compresa una sorta di “supporto psicologico” per gli autori. Proprio su quest’ultima qualità lei insiste molto, indicandola tra quelle fondamentali. Qual è secondo lei il lavoro migliore che un editor possa svolgere per portare al livello più alto possibile il rapporto con un autore e aiutarlo quindi a sprigionare la sua creatività al massimo?
Gli scrittori sono creature strane. Fragilissime, eppure tiranniche, a volte, come il puer aeternus di Jung. Richiedono attenzioni, ma se sai ascoltarli ti danno moltissimo, ti fanno crescere, ti lasciano qualcosa che altrove non troveresti. Sono sensibilità esposte, e nella loro eccezionalità sono creature meravigliose, imprevedibili. Lavorare a contatto con loro significa affiancarli in un momento particolare, quello della creazione e dell’insicurezza. Accompagnarli dentro l’affanno, guidarli fuori dalla trappola di loro stessi. Perciò, per rispondere alla domanda: il lavoro migliore che si può fare è mettersi in ascolto, sintonizzarsi sull’altro, e poi far sentire la propria presenza (sul testo e nel rapporto personale). Dal mio punto di vista, non c’è niente di più sfiancante, ma neanche di più bello. Di questo mestiere potrei fare a meno di tutto, ma non degli autori (e di uno stipendio, ça va sans dire).
CAPITOLO 4
I FESTIVAL LETTERARI
INTERVISTA A TON VILALTA
Per la tappa conclusiva del nostro viaggio nell’editoria siamo approdati nel mondo dei festival letterari e abbiamo fatto qualche domanda a Ton Vilalta, responsabile della comunicazione per il Festivaletteratura di Mantova. Ton, dopo un’esperienza all’interno dell’European Volounteer Service, si è innamorato di questa città e ha deciso di rimanere in Italia ricoprendo i ruoli più diversi all’interno del comparto editoriale, per poi tornare in maniera stabile dove tutto è cominciato.
In un articolo in cui racconta la sua esperienza lei stesso ha definito il suo percorso un “risalire la corrente”: da Barcellona a Mantova, in un momento in cui la sua città d’origine era La Mecca dei giovani lei invece ha optato per il tragitto inverso. Come è arrivato a lavorare nel mondo editoriale? Quando è arrivato al Festivaletteratura qual è stata la sua impressione e cosa di questo progetto l’ha spinta a voler rimanere e a farne parte?
Sono arrivato al mondo editoriale proprio grazie a Festivaletteratura. Il mio percorso di studi doveva portarmi da tutt’altra parte, ma poi nel 2005, appena laureato in Scienze Politiche, mi sono candidato, all’interno dell’European Volunteer Service (una specie di Servizio Civile a livello europeo), per fare un’esperienza di volontariato di qualche mese al festival. Parlavo italiano ragionevolmente bene e non solo mi hanno preso, mi hanno anche invitato a partecipare come spettatore all’edizione di quell’anno, prima dell’inizio del progetto vero e proprio. L’esperienza è stata folgorante, non avevo mai lavorato a una manifestazione culturale così ricca e partecipata, l’ambiente a Mantova in quei giorni è entusiasmante e mi sono innamorato della città e del festival. Qualche mese dopo è iniziato il mio progetto e non me ne sono più andato. Finito lo SVE sono rimasto molto legato al festival e ho continuato a collaborare in modo discontinuo per un bel po’ di anni, mentre facevo altri lavori nel mondo editoriale (traduttore, responsabile della comunicazione in una casa editrice, ecc.). Poi dal 2017 la collaborazione è diventata stabile e a tempo pieno e sono entrato a far parte della piccola segreteria organizzativa che lavora alla manifestazione dodici mesi l’anno.
L’organizzazione di un appuntamento così importante e frequentato come è il Festivaletteratura richiede una programmazione precisa e in grande anticipo. Lei si occupa della comunicazione e del fundraising, ci può parlare delle fasi d’avvio che interessano il festival anno per anno?
Il festival è una macchina complessa, ci sono diversi aspetti che vanno seguiti tutto l’anno. La prima e più ovvia è la costruzione del programma: quest’anno il festival ha avuto oltre trecento eventi, gli autori ospiti sono stati poco meno di trecentocinquanta. Questo richiede, se si vuole fare un lavoro di proposta e di qualità, un impegno di molti mesi, confrontarsi con centinaia di autori, con decine di case editrici, consulenti e collaboratori, partecipare a fiere, ad altri festival… Un po’ meno ovvio, ma altrettanto necessario, è il lavoro di reperimento delle risorse: circa l’80% del budget del festival è coperto dagli oltre centocinquanta sponsor privati che vanno adeguatamente seguiti, ma ci sono anche bandi pubblici e privati a cui partecipare, che richiedono un grande sforzo progettuale. C’è ovviamente anche un lavoro di preparazione logistica della manifestazione, che va dall’organizzazione della mensa per i volontari allo sviluppo del software per la biglietteria, passando per l’allestimento degli oltre venti luoghi in cui si svolge il festival. C’è infine la gestione delle attività che organizziamo durante l’anno e la valorizzazione del materiale del nostro archivio.
In Italia quello dell’editoria è un mercato e un contesto culturale considerato piccolo, all’interno del quale tutti si conoscono, e “di sussistenza”; eppure il pubblico risponde sempre più che bene agli eventi soprattutto nella formula del festival, come accade a Mantova. Ci può spiegare cosa significa far avvicinare la gente al mondo editoriale? La sua esperienza è arrivata al decimo anno e per questo ci piacerebbe anche sapere come ha visto crescere e cambiare il Festivaletteratura in questo importante anniversario professionale.
Festivaletteratura ha una posizione un po’ strana rispetto al mondo editoriale. C’è un’ovvia simbiosi, ma non direi che ne facciamo pienamente parte. Noi ci confrontiamo con decine di case editrici, dalle più grandi alle più piccole, ascoltiamo le loro proposte, ma cerchiamo allo stesso tempo di difendere una nostra autonomia e portare al festival solo ciò che – con criteri spesso molto personali, soggettivi e discutibilissimi – ci sembra veramente interessante. C’è sempre il rischio – anzi, la certezza – di lasciare fuori delle cose altrettanto valide, ma credo che alla fine questa libertà dalle logiche della pura promozione editoriale sia percepita da parte del pubblico (il che in fin dei conti favorisce anche le stesse case editrici). Uno degli aspetti su cui Festivaletteratura ha lavorato di più negli ultimi dieci-quindici anni è stato il tentativo di differenziare la propria proposta il più possibile: esistono ormai tantissimi festival e il rischio di diventare una semplice tappa all’interno di infiniti tour di presentazione di libri è dietro l’angolo. Per questo cerchiamo di inventare formati un po’ strani e progetti di approfondimento, proporre autori e autrici forse poco conosciuti che però abbiamo molto amato, mescolare le carte, andare oltre la semplice “presentazione del libro” e creare abbinamenti e situazioni inattesi e/o impossibili da riprodurre altrove. Cercare insomma di metterci tutta la creatività possibile.
Gli ultimi anni hanno visto una sempre più crescente rilevanza degli strumenti social e on line, e i due anni di pandemia, in particolare, hanno posto delle sfide enormi. Ci può parlare della sua esperienza all’interno di Festivaletteratura e cosa spera o si aspetta per il futuro?
Questo tipo di transizioni sono state sempre favorite dall’esistenza della redazione del festival e dall’entusiasmo delle decine di giovani volontari che in quei giorni gestiscono la comunicazione web del festival (e che lavora in parallelo a un ufficio stampa che si occupa dei rapporti con i giornalisti). Fin dalle primissime edizioni, e si parla dei primi anni 2000 quando praticamente non esisteva nemmeno il concetto di blog e molti anni prima della nascita dei social network, i volontari della redazione web caricavano già delle gallery fotografiche e cronache degli eventi sul sito. Quando nella seconda metà degli anni 2000 sono nati Facebook e Youtube, alcuni giovani volontari hanno creato praticamente in autonomia la pagina e il canale. All’inizio sono stati usati in modo poco sistematico, poi man mano ne sono state messe a fuoco le potenzialità, e il lavoro è diventato organico. Si sono aggiunti – spesso su stimolo dei volontari – Twitter, poi Instagram e infine da quest’anno (anche se all’ultima edizione qualche esperimento era già stato fatto) anche TikTok. Questo tipo di innovazione che arriva dal basso è una delle costanti del Festival e, mi sento di dire, anche una delle ragioni del suo successo dopo ventisei edizioni.